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«Il Pd e il grande equivoco delle primarie. La scelta che cambia il futuro del partito», di Ilvo Diamanti

Non è un passaggio solo tecnico, ma nel centrosinistra assume un forte carattere simbolico. Eppure tra gli elettori di sinistra solo un terzo le giudica indispensabili. Parisi le definì “il mito fondativo dell’Ulivo”. In 4 milioni scelsero Prodi. L’utilizzo però è stato à la carte: sì per Veltroni e Bersani, no per Franceschini

Il Pd e il grande equivoco delle primarie La scelta che cambia il futuro del partito
Da qualche tempo, nel Pd, la passione per le primarie sembra in declino. Nel gruppo dirigente, perlomeno. Lo stesso Bersani, di recente, ne ha messo in dubbio il ricorso in caso di alleanza con il Terzo Polo (di Centro). Al quale le primarie – per usare un eufemismo – non piacciono. D’altronde, l’atteggiamento verso le primarie è sempre stato contraddittorio. Basti pensare al caso della Puglia, in vista delle Regionali di un anno fa, quando alcuni dirigenti del Pd (D’Alema e Letta, in particolare) tentarono di bloccarle. Per impedire la ricandidatura di Vendola. Senza esito. Anzi, con l’effetto opposto: rafforzare Vendola. Trionfatore delle primarie e ri-eletto Governatore. Tuttavia, non solo in Puglia, ma anche altrove, per esempio a Firenze e, di recente, a Milano, si sono imposti candidati diversi da quelli indicati dal Pd. Da ciò la crescente insofferenza dei suoi dirigenti verso le primarie. Con l’argomento che mobilitano soprattutto i “militanti”. E, in questo modo, favoriscono la scelta di candidati maggiormente caratterizzati. Ma, per lo stesso motivo, meno rappresentativi degli orientamenti degli elettori. Soprattutto, di quelli più moderati.

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In effetti, il dibattito sulle primarie è rivelatore di una questione più ampia. Che riguarda, direttamente, l’identità e il progetto del Centrosinistra in Italia. Oltre che del Pd, che ne costituisce il riferimento. Le primarie, infatti, non hanno un significato semplicemente “tecnico”. Assumono, invece, una grande importanza simbolica. Arturo Parisi, che (accanto a Prodi) ne è stato – se non il primo – uno dei primi sostenitori, le ha definite il “mito fondativo” dell’Ulivo. Soggetto politico a vocazione maggioritaria, destinato ad accogliere le istanze e le componenti più diverse del Centrosinistra. In altri termini: il modello dell’Unione, sperimentato alle elezioni del 2006. In vista delle quali si svolsero le primarie, nell’autunno del 2005, che designarono Romano Prodi candidato premier. Si trattò, in effetti, di una investitura. A cui, tuttavia, parteciparono oltre 4 milioni e 300 mila elettori – dei diversi partiti della coalizione. Non solo l’Ulivo, ma anche l’IdV, l’Udeur, i Verdi. Segno di una domanda effettiva e particolarmente ampia nel Centrosinistra. Si tratta, peraltro, dell’unica occasione in cui le primarie siano state utilizzate, in ambito nazionale, per il loro fine naturale (come rammenta spesso Gianfranco Pasquino). Cioè: selezionare il candidato a una carica monocratica. In questo caso: il Presidente del Consiglio. Successivamente, nel 2007 e nel 2009, hanno, invece, funzionato da surrogato – o da complemento – ai congressi di partito. Mediante cui eleggere i segretari – e gli organismi – del Pd. Che, nel frattempo, aveva sostituito l’Ulivo. Seguendo il modello americano del bipartitismo. Non più Unione, ma Partito Unico dei riformisti. Nell’autunno del 2009, in particolare, l’elezione del segretario e degli organismi avvenne attraverso un percorso complesso. Prima i Congressi – a livello di circolo e di provincia – riservati agli iscritti, con il compito di eleggere la Convenzione (e l’Assemblea nazionale). Poi le primarie, aperte agli elettori (dichiarati). Poi ancora l’Assemblea, a ratificare la scelta delle primarie. Un collage di modelli organizzativi, che riassume – ed enfatizza – l’incertezza progettuale alla base del Pd. In bilico fra “partito di massa” – dunque di “iscritti” – radicato a livello territoriale. E “partito di elettori”, in formato maggioritario e americano. Fondato sulle primarie. Un equivoco mai risolto. Che riemerge di continuo. E oggi diventa difficile da eludere e da rinviare. Anche perché coinvolge gli stessi elettori. I cui orientamenti riflettono la medesima incertezza dei gruppi dirigenti. Come emerge dal sondaggio di Demos (condotto nelle scorse settimane), la maggioranza degli elettori di Centrosinistra continua a ritenere utili le primarie per scegliere i candidati Premier, Sindaci, Governatori e Parlamentari. Ma coloro che vorrebbero utilizzare questa procedura “sempre” – e in ogni occasione – costituiscono comunque una minoranza, per quanto ampia: il 30%. Questa posizione, peraltro, è espressa dal 42% degli elettori di Sel, ma da poco più di un quarto di quelli del Pd e dell’Idv. Per contro, è vero che solo una quota limitata (intorno al 20%) rifiuta le primarie “a prescindere”. Tuttavia, fra gli elettori appare evidente un certo grado di confusione. Sulle primarie, sul partito, sul Centrosinistra.
Sulle primarie. Perché, fino ad oggi, sono state utilizzate “à la carte”. Per eleggere i candidati alle cariche di governo – centrale e locale. Vi si è fatto ricorso per designare Prodi ma non Veltroni. Né, a Roma, per candidare Rutelli. Per eleggere gli organismi e i segretari di partito: Veltroni e Bersani, ma non Franceschini.
Sul partito. Sul Pd. I suoi segretari, i suoi organismi, la sua identità. La sua memoria. Hanno tratto legittimazione dalle primarie. Senza che, peraltro, questa procedura venisse regolata e istituzionalizzata.
Sul Centrosinistra. Di cui le primarie hanno definito gli incerti confini. In modo estensivo, nel 2006. Da Mastella fino a Bertinotti. In modo selettivo, nel 2007. Quando Veltroni ne ha riassunto il perimetro intorno all’asse Pd-Idv.

Oggi, nel gruppo dirigente del Pd tutti questi dubbi restano. Irrisolti. E si ripercuotono, evidenti, sulle intese e sulla leadership. Ma con le elezioni che continuano a incombere è meglio scioglierli. Presto. Bersani e il gruppo dirigente del Pd: decidano. Quali intese e quali candidati. E quale metodo di coinvolgimento della base. In altre parole: quale modello di partito. Ma senza reticenze. Le primarie non sono una religione. Restano, tuttavia, il “mito fondativo”. Dell’Ulivo, del Pd. Non ultimo: sono la procedura attraverso cui è avvenuta l’elezione di Bersani e degli organi dirigenti del partito. Il rito che garantisce loro legittimazione. Discuterle è utile, perfino necessario. Consapevoli, però, che, nello stesso momento, si rimettono in discussione la leadership e il modello di partito. E anche questo mi pare utile, perfino necessario.

da www.repubblica.it