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"La rabbia dei giovani senza futuro", di Vittorio Emanuele Parsi

Egitto, Tunisia, Algeria: sembra che il Nord Africa rischi di saltare in aria in una miscela esplosiva di regimi più o meno brutalmente autoritari e insieme sempre più deboli. Un composto di crescenti difficoltà economiche con tassi di disoccupazione impressionanti, e di un Islam radicale che soffia sul fuoco. Per chi ha memoria della sporca guerra degli Anni 90, costata oltre 150 mila morti, il timore che il più grande dei Paesi del Maghreb possa nuovamente imboccare la via della violenza settaria rappresenta un vero e proprio incubo.

Ed è un rischio reale, visto che gli epigoni del Fis sembrano godere nuovamente di un consenso crescente tra la popolazione algerina. La legittima enfasi sugli sciacalli sempre pronti ad azzannare le società arabe nel nome della loro visione distorta e fanatica dell’Islam rischia però di farci percepire ciò che sta avvenendo sulle coste meridionali del Mediterraneo come qualcosa di eccessivamente «distante», e quindi più facilmente esorcizzabile. In realtà, i giovani disperati che ad Algeri e a Tunisi distruggono e assaltano tutto ricordano molto di più i casseurs parigini della banlieue in fiamme di sei anni fa, o gli «anarchici» greci delle settimane scorse che non i seguaci di questo o quell’imam radicale.

Ciò cui stiamo assistendo in questi giorni in Algeria e in Tunisia è l’esito di una combinazione fatta di tre elementi: regimi politici poco o per nulla inclusivi, in cui il circuito politico legale è concretamente impermeabile alla società e incapace di fornire risposte adeguate al sentimento di totale abbandono in cui essa si dibatte; una crisi occupazionale, ancor prima che economica, che vede un tasso di disoccupazione stabilmente intorno al 25% nella contemporanea assenza di meccanismi di Welfare; e una distribuzione della popolazione per fascia d’età (il 75% degli algerini ha meno di 30 anni) che fa sì che quelli che non hanno nulla da perdere a «spaccare tutto» siano tanti, tantissimi: forse abbastanza numerosi da fare una rivoluzione.

A Parigi come a Torino, a Londra come a Berlino o a Madrid, abbiamo dati sulla disoccupazione giovanile non molto diversi, e tutti i governi, di qualunque colore, sono in difficoltà nell’offrire ai giovani risposte che non siano palliativi o vuote promesse. Non è un caso che proprio i giovani siano quelli a un tempo meno protetti da ciò che resta dello Stato sociale e più alienati rispetto al sistema politico (si vedano i dati sull’astensionismo giovanile). Ma nella vecchia Europa (mai l’aggettivo è apparso più appropriato) i giovani, semplicemente, sono pochi, non abbastanza per far prendere in considerazione le proprie richieste, figuriamoci per «fare la rivoluzione».

La nostra piramide demografica è speculare rispetto a quella dei nostri dirimpettai, e questo – insieme alla maggior inclusività dei nostri sistemi politici e alla maggior solidità dei nostri sistemi di Welfare, ovviamente – è ciò che fa la vera differenza. Quel che rischia di condannare i conti dell’Inps, o per lo meno di rendere la nostra vecchiaia meno florida di quanto avessimo sperato, è anche la miglior garanzia di stabilità del sistema e spiega la sostanziale attitudine conservatrice di un Paese come l’Italia.

Oltremare è esattamente l’opposto. In maniera per molti versi analoga a quanto avvenne nel 1992, possiamo solo sperare che il regime riesca a tenere la situazione sotto controllo, ma non certo permetterci il lusso di illuderci che ciò possa minimamente coincidere con un qualche inizio di soluzione.

Se Paesi come i nostri, istituzionalmente solidi e dalla ben maggiore capacità di pressione sull’economia globale, i suoi attori e i suoi forum, non riescono a venire a capo di questa distruzione sistematica di posti di lavoro che l’economia contemporanea sembra imporre, come pensare che una simile impresa possa riuscire a sistemi ben più fragili come quelli del Maghreb?

La Stampa 09.01.11

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“La rivolta di chi non ha più niente da perdere”, di TAHAR BEN JELLOUN

Il capo dello Stato tunisino, Ben Ali, è un ex ufficiale di polizia; e a quanto pare sua moglie, Leila Trabelsi, che gioca un ruolo importante nell’ombra, ha un passato di parrucchiera. Un giorno, mentre mi trovavo in Tunisia, innervosito e a disagio per la presenza della polizia, mi lamentai con un amico di quel clima di alta sorveglianza. E lui, sorridendo, rispose: “Che altro ti aspettavi da un Paese governato da un ex poliziotto e da una ex parrucchiera?”

Ma al di là dell’aneddoto, Ben Ali, al potere dal 1987, dopo un colpo di stato “morbido”, si era dapprima lanciato in una lotta senza quartiere contro gli islamisti, per poi dedicarsi alla crescita del Paese. Non ha però mai tollerato nessun tipo di critica, né di contestazione o di opposizione politica. Ha governato il Paese col pugno di ferro, imbavagliando la stampa e tenendo i cittadini sotto sorveglianza. Ad autorizzare la sua posizione rigida, che rifiuta ogni concessione, è stato l’appoggio pressoché unanime della Francia in particolare e degli Stati europei in generale. Tutto funziona secondo la sua volontà: il commercio estero è prospero, i turisti affluiscono in massa; dunque, perché cambiare politica? E soprattutto, perché cedere ai contestatori?

C’è stato bisogno di una scintilla, di una ventata di follia, di un dramma umano per spingere la popolazione a scendere in piazza per manifestare contro questo regime poliziesco: il 17 dicembre un ambulante 26enne si è cosparso di benzina per
immolarsi sulla pubblica piazza di Sidi Bouzid, una cittadina nella zona centrale del Paese. E’ deceduto tre settimane dopo. I poliziotti avevano confiscato arbitrariamente la sua carretta di frutta e verdura; e lo sdegno lo ha spinto a farla finita. Il suo non è stato però un gesto impulsivo: da molto tempo subiva i soprusi e il disprezzo dei poliziotti. E’ contro questo disprezzo che migliaia di tunisini hanno manifestato per diversi giorni. Quattro i morti: due suicidi e due manifestanti uccisi da colpi di arma da fuoco. Il regime di Ben Ali si è così screditato, e non dovrebbe più poter contare sulla benevolenza degli europei.

Se in Algeria la situazione non è migliore, il contesto delle sommosse di questi ultimi due giorni è però diverso. L’Algeria vive in uno stato di tensione permanente da ormai vent’anni – da quando il processo elettorale che stava portando alla vittoria il partito islamista “Front Islamique du salut” fu interrotto. Seguì una guerra civile, costata oltre 100.000 morti. Il terrorismo che si richiama all’islam esiste tuttora, e non ha cessato di commettere crimini ai danni della popolazione civile. Oggi è stato il brusco aumento dei prezzi dell’olio e dello zucchero a scatenare le proteste di una popolazione che si sente depredata, umiliata e sfruttata. Non si comprende perché un Paese ricco come l’Algeria (grazie alla manna del petrolio e del gas, lo Stato dispone di ben 155 miliardi di dollari di riserve di cambio) debba avere una popolazione così povera.

L’Algeria è un Paese ferito, che risente ancora dei postumi della guerra di liberazione. E benché lo Stato si confonda con l’esercito, non riesce a garantire la sicurezza dei cittadini. Gli attacchi dei sedicenti commando islamici si ripetono quasi ogni settimana. Un giovane su tre non trova lavoro. A mezzo secolo dall’indipendenza il Paese continua a soffrire, e non riesce a usare le sue immense ricchezze per avviare uno sviluppo razionale a beneficio di tutti gli strati della popolazione. Eppure l’Algeria può vantare molti intellettuali di qualità, giornalisti di grande talento e coraggio e alcuni formidabili economisti; e ha una popolazione ospitale, buona, generosa, che ama la vita. Ma le cose non funzionano; c’è il peso della storia, in uno Stato non consolidato; i grossolani appetiti di alcuni militari, la corruzione. La Kabilia (la parte berbera dell’Algeria) non ha mai cessato di contestare il potere centrale, che risponde sempre con la repressione. Manca la fiducia tra i politici e i cittadini.

E a tutto ciò si aggiunge l’avanzata dell’islamismo identitario e contestatore. E’ nata così una situazione esplosiva, illustrata dalle manifestazioni di questi ultimi giorni. Come in Egitto, come in Tunisia, la gente non ne può più di subire umiliazioni (l’ormai celebra hogra) e scende in piazza al grido di Kifaya! (“basta”).

Se in Tunisia e in Algeria il potere non accetta di essere messo in discussione, se al clamore popolare sa rispondere solo con azioni repressive e spargimento di sangue, è perché non ha compreso nulla di quanto accade ai livelli più profondi; e non si rende conto che presto o tardi sarà spazzato via dall’ira di chi non ha più nulla da perdere.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Repubblica 09.01.11