attualità, politica italiana

"Quando c'era il PCI", di Nello Ajello e Michele Smargiassi

Livorno 1921 – Rimini 1991. Nel doppio anniversario cronache dal primo e dall´ultimo congresso del più grande partito comunista d´Occidente.
Livorno, 15 gennaio 1921, teatro Goldoni. La destinazione del XVII Congresso del Partito socialista è un ripiego: Firenze, destinata in origine a ospitarlo, è a serio rischio di assalti fascisti. Una foto di Carlo Marx invade il fondo del palcoscenico. Fiori e piante adornano platea e palchi. Millecinquecento soldati e duemila fra guardie regie e carabinieri proteggono (o sorvegliano?) i tremila delegati. «In città l´animazione è grandissima», scrive il Corriere della sera. «I comunisti “puri” non hanno ancora designato i loro candidati, ma saranno l´avv. Terracini, relatore, l´on. Bombacci, l´ing. Bordiga e il prof. Gramsci, direttore dell´Ordine nuovo».
L´esito del congresso appare segnato: scissione. Non a caso il quotidiano milanese ha citato per prima, tra le frazioni convenute a Livorno, quella comunista “pura”. È questa a richiamare l´attenzione. L´ingegnere Amadeo Bordiga, un napoletano di trentadue anni, direttore della rivista Il Soviet, animato da una «logica rigorosa fino all´eccesso» – così lo descriverà Togliatti – ha già riscosso il consenso dell´intera sua corrente.
A partire dal gruppo torinese capeggiato da Gramsci, che assai più tardi entrerà con Bordiga in un cruciale antagonismo: per il momento è chiaro che, se si vuol dare vita al partito comunista, occorre accettare le direttive bordighiane. Ed esse ammettono solo «il dilemma fra la dittatura borghese e quella dittatura del proletariato» che vige nella «gloriosa Russia dei Soviet». In mezzo a quel bivio, niente.
L´intransigenza di Bordiga riscuote l´appoggio di Gregorij Zinoviev in nome della Terza Internazionale, detta Komintern, il cui bollettino riferisce: i comunisti italiani «affermano di avere con sé il 75-90 per cento del partito». Scissione, dunque, subito. Lo stesso Gramsci ha formulato un roseo paragone: trentamila comunisti sono bastati in Russia per fare la rivoluzione, da noi i numeri paiono assai più favorevoli. Terracini, il relatore, è d´accordo. In realtà, ecco il rapporto fra le correnti che uscirà dal Goldoni: ai massimalisti o “centristi”, raccolti intorno a Serrati, vanno novantottomila voti, a cinquantottomila ammontano i comunisti di Bordiga e quattordicimila sono i riformisti al seguito di Turati. Ma ormai è deciso: il Partito comunista italiano va creato in ogni modo.
Netta anche la scelta dei militanti della nuova generazione. La proclama dalla tribuna Secondino Tranquilli (si chiamerà poi Ignazio Silone): «La gioventù socialista chiede ai rappresentanti comunisti di bruciare qui il fantoccio dell´unità».
La scena madre più veemente trova l´interprete nell´anziano Turati. Durissimo verso i comunisti, egli prende a parlare fra grida di «Viva la Russia!» e conclude con la platea in piedi. Christo Kabakciev, delegato del Komintern, invoca, all´opposto, l´espulsione dei riformisti. Volano accuse di ogni tipo. «Pagnottisti», «stipendiati», urlano i comunisti all´indirizzo dei sindacalisti. «Voi ricevete i rubli», è la risposta. Definito «rivoluzionario da temperino» da uno dei presenti, Nicola Bombacci estrae una pistola: a fatica lo calmano Bordiga e Terracini. «Non per nulla», commenterà il Corriere della sera, «i congressi si tengono nei teatri».
Gramsci non parla. «Non esistevano altoparlanti per voci deboli come la sua», testimonierà Alfonso Leonetti. Ma Camilla Ravera riferisce che per l´amico Antonio quei giorni sono stati un supplizio: i riformisti gli hanno rivolto troppe «ingiuste parole» fra le quali, si saprà, l´assurda accusa di essere stato «un ardito di guerra» nel 1915-18. Freddo e sprezzante si mostra Bordiga. Il suo «non è un addio, è un ripudio». È lui che, la mattina del 21 gennaio, invita coloro che hanno votato la mozione comunista ad abbandonare la sala. «Sono convocati alle 11 al teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista», appunto. Uscendo, i “convocati” cantano l´Internazionale. Gli risponde, da dentro, l´Inno dei Lavoratori.
Il San Marco è più un relitto che un teatro. Lo illumina qualche rara lampada. Non c´è una sedia. Si gela. Dal tetto piombano scrosci di pioggia. Le relazioni sono succinte. Scheletrici gli interventi. Alla fine il capo delegato della III Internazionale osserva: «Il taglio del partito è avvenuto in modo non soddisfacente». Gramsci si sfoga: è il «trionfo della reazione». Da lontano, anche Lenin parla di «successo della reazione capitalistica», in linea con gli attacchi che ha già mossi a Bordiga nell´Estremismo, malattia infantile del comunismo. Mussolini esprime la sua esultanza in due articoli sul Popolo d´Italia, 16 e 22 gennaio. «La rivoluzione», scrive, «resta sospesa per l´assenza degli attori». «Invece della rivoluzione», insiste, «la scissione. Il partito che doveva regalare il paradiso al proletariato si spezza».
Alla lacerazione congressuale tiene dietro il riflusso, proprio mentre s´aggrava l´attacco dei fascisti alle sedi operaie. Ma neppure gli eventi dell´ottobre ´22, apriranno gli occhi a chi dirige il neonato P.c.d´I (Partito comunista d´Italia). Bordiga archivierà la marcia su Roma come la normale soluzione d´una crisi di governo o al massimo come la «legalizzazione d´uno stato di fatto». Verranno respinti gli inviti dello stesso Kominform a unire socialisti e comunisti contro lo squadrismo. Il Congresso di Lione, 1926, avvierà il tramonto di Bordiga, ma «il fossato aperto nel 1920-21», sono parole dello storico Paolo Spriano, «non si colmerà neppure con l´epoca dei Fronti popolari o con la guerra antifascista o con la morte di Stalin, né tanto meno con il XX Congresso del Pcus». I decenni si sommeranno ai decenni. Che cosa si vuole che insegni la Storia?

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Rimini, lunedì 4 febbraio 1991, ore 15. In un freddo capannone della Fiera, l´atto fondativo del partito post-comunista italiano è un bicchierino di Johnnie Walker buttato giù d´un colpo da Achille Occhetto, semplice delegato di Bologna. L´incredibile, anche se non l´impensabile, è accaduto: alla sua prima votazione, il Consiglio nazionale di un Pds ancora in fasce non ha eletto segretario il suo fondatore. Dieci voti meno del quorum di 274. Il Pds nasce decapitato, rancoroso e sconcertato. Si materializza un trafelato Walter Veltroni: «Achille, ci riconvochiamo e rivotiamo». E lui, gelido: «Cercatevi un altro segretario». Monta sull´auto blu, sparisce nell´aventino di Capalbio. Staccando i telefoni.
Nessuno canta vittoria. Non gli scissionisti di Rifondazione Comunista, che in un albergo del lungomare trepidano fondando un partito dal futuro altrettanto incerto. Non i “miglioristi”, il cui avvertimento a Occhetto è andato fuori misura, sgretolando il bersaglio. Un patatrac, uno psicodramma che sarà rappezzato solo una settimana più tardi, a Roma.
l tessitore sarà Massimo D´Alema che riuscirà a reinsediare sul trono un re ormai indebolito. Quindici mesi dopo la svolta della Bolognina, dieci mesi dopo il congresso dei pianti e degli abbracci di Bologna, la drammatica eppure emozionante eutanasia del Pci bene o male è terminata. Quando una Rimini umida e nebbiosa e perfino spruzzata di neve accoglie un migliaio di delegati del ventesimo e ultimo congresso comunista italiano i giochi sono già fatti: nel falò emotivo di 10.500 congressi di sezione il 72,3 per cento dei militanti ha scelto di sostituire la Falce-e-martello con la Quercia. Nella Perla dell´Adriatico si va per una cerimonia funebre destinata a mutarsi in un battesimo, ma liturgia e responsori sembrano già scritti. Il clima è sereno e ottimista, si vendono le spille con la Quercia, si organizzano cene di pesce e puntate in discoteca, i cronisti esibiscono la novità tecnologica del momento: i telefoni cellulari.
Ma questo è solo l´avanscena. I rapporti di potere nel nuovo partito, che aprirà alla novità scandalosa delle correnti, sono in realtà ancora fluidi, tutti da contrattare. Sulla carta Occhetto dispone di una maggioranza schiacciante: la sua mozione ha raccolto il 68,2 per cento, che la fuoriuscita di una larga parte del “fronte del no” di Cossutta e Garavini (26,5 per cento) renderà ancora più imponente, unica opposizione interna la “terza mozione” di Bassolino e Asor-Rosa col 5,2. Ma nascosti nel correntone occhettiano, al riparo da conte premature, stanno i “riformisti” di Giorgio Napolitano, stimati attorno al 15 per cento, che puntano a condizionare il segretario da destra.
Però forse nulla succederebbe senza i bagliori che vengono da Oriente. La prima Guerra del Golfo è scoppiata, le luci verdastre su Bagdad delle dirette Cnn incombono sul congresso più del fosco rosso del comunismo morente. Il 21 gennaio gli italiani hanno visto in tivù l´occhio pesto del capitano Cocciolone catturato da Saddam, i pacifisti sono in piazza e il Pds che ancora non c´è è già spaccato in due. Occhetto, che spera di trattenere Ingrao nella “Cosa” nuova, non vuole rinunciare alla richiesta di ritiro delle navi italiane e di tregua unilaterale. I miglioristi vedono in quella mozione lo spettro terribile di un Pds che nasce su un patto a sinistra, che li esclude.
Giovedì 31 gennaio Occhetto sale sul palco a tolda di nave disegnato dall´architetto De Ponte. Le scenografie sovietiche sono un ricordo, c´è molto verde-grigio e poco rosso che sfuma nell´arancio, bassa la tribuna della presidenza, la platea è un´arena. Parla per due ore e venti, «portiamo Gramsci con noi», dice «alternativa» dice «socialismo». Ma per la prima volta in un congresso del Pci non applaudono tutti. Il satirico Cuore è spietato: «Al congresso tutti d´accordo purché non si parli di politica». Il segretario Psi Bettino Craxi, seduto in tribuna accanto a Martelli e Amato, crocifigge Occhetto: «Confuso. Tina Anselmi ha più chance di lui di entrare nell´Internazionale socialista». I miglioristi sono sempre più nervosi. Venerdì il confronto ravvicinato tra Napolitano e Ingrao è epico, ma la battaglia vera non si fa sul palco. I carpentieri improvvisano nuove sale riunioni per il moltiplicarsi di riunioni riservate. «Qui fanno tutto le correnti» si allarma Paolo Flores d´Arcais, che con Massimo Cacciari guida gli “esterni”, i “cofondatori” della “sinistra diffusa” sempre più marginali.
Le tattiche si alternano ai colpi di mano: svegliato nel cuore della notte, Occhetto strappa a delegati assonnati ed esausti l´approvazione a scatola chiusa dello statuto. Dove è nascosta la trappola: un Consiglio di oltre cinquecento membri, con vincolo della maggioranza assoluta per l´elezione del segretario. Un commosso Garavini intanto annuncia l´addio dei rifondatori, ma la scissione accolta nella spoglia “Sala E” al canto di Bandiera rossa e grida di «Viva il comunismo» a questo punto è la cosa più scontata del congresso. Con lui se ne vanno Cossutta, Serri, Salvato. Ingrao, soffrendo, resta nel Pds. Con lui un sindacalista di nome Fausto Bertinotti. Il nuovo partito nasce sulle note di De Gregori, La storia siamo noi, alle sette di sera di domenica, con l´affitto degli hangar fieristici ormai scaduto, mentre gli operai smontano le scenografie. Ma è con la mozione del Golfo, sulla quale riformisti e ingraiani si astengono, che Occhetto misura la sua forza: 59,9 per cento. Esultano incauti i “quarantenni”, Mussi, Veltroni, Fassino, Petruccioli: «Siamo autosufficienti!». Incauti: il siluro di rivalsa è già puntato su un Occhetto che, lunedì mattina, pregusta tranquillo l´apoteosi in una hangar di fortuna pericolosamente decimato dalle partenze dei delegati. «Visto? Stavolta non ho pianto», scherza coi cronisti, «però, L´Unità poteva fare il titolo in rosso oggi…», «segretario della Quercia, suona imponente, no?» Poco lontano, terrea, la presidente del Congresso Giglia Tedesco ha già in mano i risultati dello scrutinio. E non sa come diglielo.

La Repubblica 09.01.11