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«Federalismo al via senza cinque regioni», di Sergio Rizzo e Mario Sensini

ROMA— Per sputare il rospo Salvatore Bilardo aspettava solo l’occasione. Che finalmente, mercoledì 16 febbraio, è arrivata sotto forma di un’audizione alla Commissione Bicamerale sul federalismo. L’ispettore capo della Ragioneria si è seduto e ha scandito bene le parole: «L’eliminazione delle inefficienze e delle storture in materia di finanza pubblica, cui è finalizzato il processo di federalismo fiscale, non può che riguardare l’intero territorio nazionale» . Quindi, anche le Regioni a statuto speciale. Considerazione che ha provocato la replica stizzita («È il ministro che deve parlare di politica, non la Ragioneria» ) del presidente della Commissione Enrico La Loggia, siciliano, nonché nipote dell’omonimo uomo politico che fu fra i fondatori dell’autonomia regionale della Sicilia. Un autentico macigno, l’autonomia, sulla via del federalismo. Nonostante un paradosso. Sulla carta, infatti, le Regioni a statuto speciale sono già «federaliste» , se con questo s’intende trattenere sul territorio le tasse che lì vengono prodotte. Esattamente quello che accade in Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta e nelle due Province di Trento e Bolzano, per un totale di 9 milioni di abitanti, il 15%dell’intera popolazione italiana. Anche se con differenze notevoli. Alle Regioni autonome del Nord le imposte pagate dai loro cittadini bastano e avanzano. In Sicilia e Sardegna, no. Nel 2008 lo Stato ha dovuto versare in più 508 milioni alla Sardegna e 2,3 miliardi alla Regione siciliana. E questa situazione è destinata a continuare. Con o senza la riforma tanto cara alla Lega Nord. Il motivo? Le Regioni a statuto speciale sono escluse dal meccanismo principale, quello dei cosiddetti «costi standard» che d’ora in poi dovrà sostituire il sistema demenziale della «spesa storica» , con il quale lo Stato rimborsa a piè di lista i governatori. Il fatto è che l’autonomia di queste sei entità è prevista dalla Costituzione. Piccolo particolare, nemmeno in questo frangente qualcuno si è sognato di metterla in discussione. Eppure rappresenta una pericolosa incognita per il successo del progetto federalista: non fosse altro perché questi territori hanno vincoli di solidarietà generici e sfumati rispetto al resto del Paese. Corpi separati, con regole proprie. Tanto per dirne una, i sindaci di queste Regioni non saranno tenuti ad applicare l’Imu, Imposta municipale unica, l’architrave del federalismo comunale. Le differenze affondano le loro radici nella storia, e vengono continuamente rivendicate. Ma hanno ancora ragion d’essere nel 2011, in un’Europa unita senza più frontiere? La domanda è più che legittima, anche alla luce delle conseguenze che queste «autonomie» comportano per il Paese. I Comuni della Provincia di Belluno, per esempio, hanno promosso un referendum per staccarsi dal Veneto e passare alla Provincia di Bolzano. Attirati, evidentemente, dagli enormi vantaggi economici che ne potrebbero trarre, come i contributi stratosferici, con finanziamenti a fondo perduto fino all’ 80%dell’investimento, concessi dall’Alto Adige agli albergatori. Per esempio gli stipendi astronomici, nei confronti del resto d’Italia, che toccano agli amministratori locali. Basta dire che al sindaco di Bolzano spettano 12.400 euro lordi al mese, quasi il doppio del sindaco di Roma. E che il governatore dell’Alto Adige Luis Durnwalder, apertamente refrattario ai festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, ha un appannaggio di circa 320 mila euro lordi l’anno, 36 mila più di Barak Obama. Per la Sicilia, invece, mantenere l’autonomia significa poter alimentare un sistema assistenziale onerosissimo, con un numero di dipendenti regionali enorme (sono oltre 21 mila) che costano 1,7 miliardi di euro l’anno: più del 70%di quanto spendono tutte le altre Regioni italiane. Ognuno di loro percepisce uno stipendio medio di 42.500 euro l’anno, superiore del 40%a quello dei ministeriali. Ma va in pensione molto prima e con un assegno medio di 2.472 euro al mese. Gran parte dell’economia dell’isola si regge su una pubblica amministrazione elefantiaca e spendacciona. Prendete la storia del servizio di ambulanza del 118, raccontata in una spaventosa relazione della Corte dei conti appena qualche giorno fa. Nei primi quattro anni il costo della convenzione con cui la Regione aveva appaltato il servizio alla Croce Rossa, è salito da 10 a 120 milioni di euro. Le ambulanze sono aumentate dalle originarie 157 a 280. Il numero degli autisti soccorritori è lievitato da 1.570 a 3.009. E adesso che la convenzione è stata disdetta, sono diventati 3.319, di cui 222 amministrativi. Non abbiamo citato a caso questo episodio. Perché il cuore del problema, e non soltanto delle amministrazioni regionali autonome, è la sanità, che assorbe oltre l’ 80%della spesa delle Regioni. Una cifra gigantesca, pari a 106,5 miliardi nel 2011, che cresce ogni anno, ma che non basta mai, perché alcune regioni continuano ad accumulare deficit. E si capisce. L’ospedale di Taurianova, in provincia di Reggio Calabria, ha 29 posti letto e 174 dipendenti, tra i quali 150 medici e infermieri. A quello di Gioia Tauro lavorano in 173 per 48 posti letto e qualche anno fa hanno pure assunto per concorso 26 cuochi, prima di appaltare la mensa all’esterno. La sanità costa in media a ogni calabrese 3.090 euro l’anno, contro i 1.665 euro che gravano sulle spalle di ogni veneto. Ma la performance peggiore è quella del Lazio: 3.490 euro a testa, ovviamente senza contare le addizionali Irap e Irpef pagate dalle imprese e dai contribuenti. La sovrattassa locale sui redditi è all’ 1,4%, il massimo. Ma per chiudere il buco dei conti sanitari del Lazio, secondo la Corte dei conti, dovrebbe essere addirittura portata al 3%e restarci fino al 2028. Di razionalizzazioni serie, finora, nemmeno l’ombra. Da qualche anno però lo Stato ha deciso di non rimborsare più gli sforamenti. E le cinque Regioni più inguaiate per le quali sono stati predisposti drastici piani di rientro (Lazio, Campania, Puglia, Molise, Calabria) annaspano. Finora se la sono cavata con le sforbiciatine. Avrebbero dovuto usare il machete, anche se non è certo lo strumento più adatto per mantenere il consenso. Anche questa partita, come quella delle spese delle amministrazioni comunali, si dovrebbe finalmente risolvere con l’applicazione dei famosi «costi standard» . Se il prezzo di una siringa è, poniamo, di 5 centesimi, lo Stato rimborserà solo quella cifra. Chi vuole spendere di più, si arrangi. Un problemino mica da ridere, in certe realtà soprattutto meridionali. Non a caso i governatori del Mezzogiorno, a prescindere dal colore politico, hanno alzato le barricate contro i loro colleghi del Nord, ingaggiando un durissimo braccio di ferro sul riparto delle risorse 2011. Finora i criteri fondamentali sono stati l’età e il numero dei residenti. Per quest’anno i governatori meridionali chiedono che si tenga conto anche dell’ «indice di deprivazione» . Più si è poveri, sostengono, più ci si ammala. Può darsi, ma i cinque parametri per misurare quell’indice non hanno proprio nulla a che vedere con la salute: si va dal titolo di studio, al numero di stanze per abitante, alla disponibilità del lavoro. La trattativa, iniziata a dicembre, è tuttora arenata. E la spaccatura fra Nord e Sud non è certo un buon viatico per il processo cosiddetto «federalista» . Che già deve scontare l’esclusione delle Regioni a Statuto speciale dalla tagliola dei costi standard. Come non bastasse, i presidenti delle Regioni non vogliono neanche sentir parlare del «fallimento politico» , forse l’unica arma in mano allo Stato (e ai cittadini) per colpire gli sprechi dei cattivi amministratori locali. Il governo ha stabilito infatti l’ineleggibilità dei governatori che non presentano i conti certificati della sanità sei mesi prima delle elezioni. Per Giulio Tremonti è l’unico sistema per farla finita con lo scandaloso scaricabarile a cui ci hanno abituati: la colpa è sempre di chi c’era prima. Per i
governatori è contro la Costituzione. «Se il presidente di una Regione arriva al livello in cui può scattare il fallimento politico» , replica il coordinatore della commissione tra governo ed enti locali sul federalismo, Luca Antonini, «non è incostituzionale mandarlo via. È incostituzionale lasciarlo al suo posto» . Ultima notazione: nessuno dei decreti legislativi in discussione parla dei costi della politica. Eppure è una delle maggiori fonti di spreco delle Regioni italiane. Assemblee spesso pletoriche, talvolta addirittura più costose, in rapporto ai loro componenti, del Senato della repubblica: come avviene per esempio in Sicilia. Soprattutto, con regole assurde, come quella che consente l’esistenza nei consigli regionali di gruppi composti da una sola persona, il suo presidente. Al quale spetta, secondo le Regioni, anche l’auto blu e uno stuolo di assistenti, oltre a un congruo aumento di stipendio. Sapete quanti ce ne sono in tutta Italia di questi «monogruppi» ? Settantadue. Ma questa è un’altra storia…

da Il Corriere della Sera