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"Le rivoluzioni che l’Occidente non ha capito", di Kurt Volker*

Una delle grandi sfide delle analisi nel lavoro di intelligence è la previsione dei grandi cambiamentiL’analisi più sicura è quasi sempre che le forze che hanno plasmato le cose fino a oggi continuerannoIl mantenimento dello status quo è dunque il risultato più probabile almeno fino al momento in cui lo status quo scompare.
Questo rende cauti i politiciAnche nel pieno di nuovi sviluppi dimostrazioni, crisi economiche, guerre l’aspettativa è che la nave corregga la rotta e le cose tornino alla normalitàVale la pena quindi aspettare, essere cauti, per vedere chi prende il potere, per tentare di salvaguardare altri interessi di sicurezza nazionalePerché invischiarsi in una situazione per sostenere una parte, se c’è una buona probabilità che l’altra prevalga?
E tuttavia i grandi cambiamenti inaspettati accadono, la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica e trovarsi dalla parte sbagliata del cambiamento ha i suoi costi. Inoltre, quando il cambiamento è inevitabile, la cautela può prolungare una crisi, mentre l’azione potrebbe portare a una soluzione più rapida, pacifica e benefica.
Il trucco sta nel capire quando è in corso un grande cambiamento e quando è business as usual. Questo è proprio il punto su cui l’Occidente ha costantemente sbagliato riguardo alle rivoluzioni che stanno esplodendo in Medio Oriente. Prima c’è stata la Tunisia, dove la maggior parte degli osservatori riteneva che le manifestazioni non potessero rovesciare un dittatore. Poi c’è stata la presunta unicità della Tunisia, la maggior parte degli osservatori non credeva possibile che il cambio di regime lì potesse significare un cambio di regime altrove. In Egitto, la maggior parte degli osservatori non credeva che le proteste potessero davvero far cadere Mubarak. La maggior parte degli osservatori non credeva che in Libia, con un regime pronto a usare la forza bruta, il cambiamento fosse possibile. Ogni volta abbiamo sbagliato l’analis. iOgni volta siamo stati lenti nel parlare, lenti nel sostenere il cambiamento, lenti nell’agire. Quelli che sono stati disposti a rischiare la vita per la propria libertà in Medio Oriente possono essere perdonati se pensano che gli Stati Uniti e l’Occidente siano stati contro di loro. Perché abbiamo sbagliato? Primo per la convinzione che i regimi alla fine avrebbero prevalso e allora perché bruciare i ponti?
In secondo luogo, soprattutto in Europa, per la paura che ogni cambiamento porti a massicci esodi di rifugiati e flussi migratori. Terzo, per il timore che gli estremisti islamici si impadroniscano delle rivoluzioni e impongano un regime peggiore di quello precedente. Quarto, per la preoccupazione che i nuovi regimi potrebbero non onorare gli accordi esistenti con Israele. Quinto per il paternalistico luogo comune che ritiene gli arabi non ancora pronti per la democrazia. E sesto e ultimo punto forse il più significativo perché i governi occidentali semplicemente non capiscono che questa è una rivoluzione basata sui valori umani e su ideali di trasformazione.
Autoritari leader arabi per anni ci hanno detto che l’Islam radicale era l’unica alternativa al loro governo hanno usato il conflitto israelo-palestinese come una cortina di fumo per mascherare i loro feroci regim.i. Hanno soppresso l’accesso pubblico alle informazioni e alle fonti del pensiero arabo alternativo. Come risultato, noi in Occidente ci siamo convinti che un cambiamento democratico fosse davvero impossibile nonostante i nostri stessi valori.
La maggior parte dei funzionari governativi non legge i messaggi su Twitter. Molti di quelli che li leggono li considerano insignificanti divagazioni popolari rispetto alle posizioni ufficiali e alle azioni del governo. Eppure, basta leggere i messaggi dei partecipanti e degli osservatori in Medio Oriente per capire che ciò che sta accadendo ora è diversoLa gente sta spazzando via i miti proposti per anni da questi leader autoritari. Questa onda di marea non ha a che fare con l’Islam, né con Israele o l’Occidente, si tratta di una richiesta di diritti e libertà che arriva dall’interno, da una nuova generazione di arabi che vedono come le loro società sono state depredate dai propri governant. iPer quanto le istituzioni della democrazia siano state negate per decenni, l’aspirazione dello spirito umano alla libertà rimane universale e intatta. Questo è ciò che la nostra prudente politica e le analisi di intelligence non sono riuscite a capire.
Il bisogno di cambiamento nella regione non sparirà nel nulla e poiché è in linea con i nostri valori più profondi, l’Occidente avrebbe dovuto sostenerlo dall’inizio.
Per quanto sia difficile fare queste previsioni ora dobbiamo capire che questo non è business as usual questo è il grande cambiamento. I nostri timori per la stabilità, la sicurezza dell’area e l’estremismo islamico hanno più probabilità di avverarsi se resistiamo a questi cambiamenti piuttosto che se li appoggiamo e le opportunità per un reale progresso su questi stessi temi la stabilità, la pace regionale, la sicurezza globale, la lotta all’estremismo sono di gran lunga maggiori in un Medio Oriente democratico. Le conseguenze ridimensioneranno sia la guerra in Afghanistan sia quella in Iraq.

*Ex ambasciatore americano alla Nato è senior fellow e direttore del Centro per le relazioni transatlantiche presso la Johns Hopkins University School of Advanced International Studies e consulente senior presso McLarty Associates(Traduzione di Carla Reschia)

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“Petrolio e tecnologie militari: dossier sulle imprese italiane”, di Fiorenza Sarzanini

Non solo petrolio. Sono affari da miliardi di euro, quelli che le imprese italiane hanno concluso in Libia negli ultimi anni. Sistemi di alta tecnologia, veicoli, elicotteri, infrastrutture, impianti, mangimi industriali: nell’elenco delle esportazioni tra il 2008 e il 2010 figurano anche i ricambi per le navi da guerra e per armamenti, i dispositivi di tiro, i materiali per bombe, razzi e missili. L’ultima relazione trasmessa dagli apparati di sicurezza al ministero dell’Interno fa il punto sulla crisi che sta travolgendo il regime di Gheddafi. Dedica un ampio capitolo alle ripercussioni che la rivolta può avere sull’economia del nostro Paese. Conferma le relazioni tra il rais e le industrie belliche. Poi analizza le ripercussioni che la guerra civile può avere sulla nostra economia «tenendo conto che la Libia si colloca al quinto posto nella graduatoria dei Paesi fornitori dell’Italia con un peso percentuale del 4,5 per cento sul totale delle nostre importazioni, mentre il nostro Paese rappresenta il primo esportatore che ricopre circa il 17,5 per cento delle importazioni libiche con un interscambio complessivo stimato nel 2010 di circa 12 miliardi di euro» Non solo. Nella relazione viene evidenziato come «la Libia risulta essere il primo fornitore di greggio e il terzo fornitore di gas per l’Italia».
Gli investimenti di 100 aziende, l’elenco delle imprese che fanno affari in Libia comprende tra l’altro Telecom e Alitalia, Edison e Grimaldi, Visa e Saipem. Il dossier evidenzia come «Impregilo ha ottenuto contratti per oltre un miliardo di euro per la costruzione di tre centri universitari e per infrastrutture da realizzare a Tripoli e Misurata, mentre il Gruppo Trevi sta lavorando a diversi grandi progetti edilizi nel centro di Tripoli». Sono cinque i settori nei quali gli italiani sono maggiormente impegnati: impiantistica, costruzioni, trasporti, meccanica e mangimi industriali con la Martini Silos. Le considerazioni degli analisti fanno ben comprendere quali possano essere le conseguenze della crisi: «L’Italia risulta essere il terzo Paese investitore tra quelli europei (escludendo il petrolio) e il quinto a livello mondiale. L’importanza che il mercato libico riveste per il nostro Paese è dimostrata anche dalla presenza stabile in Libia di oltre 100 imprese. Il maggiore investitore è l’Eni, ma di rilievo è anche la presenza della Iveco spa presente con una società mista e un impianto di assemblaggio di veicoli industriali» Nell’elenco delle aziende «c’è la Sirti che unitamente alla francese Alcatel ha ottenuto commesse per la fornitura e la messa in opera di oltre 7.000 chilometri di cavi di fibre ottiche per un importo globale di 161 milioni di euro (di cui 68 per Sirti); la Agusta-Westland che ha ottenuto il contratto per la fornitura di dieci elicotteri con relativi corsi di formazioni e assistenza postvendita; Alenia Aermacchi ha invece ottenuto un contratto da tre milioni di euro per un programma di formazione e revisione dei sistemi di propulsione su 12 aerei sf-260».
Ricambi per bombe e siluri.
Alla relazione sono allegate le tabelle che danno conto degli affari più remunerativi ed elencano sia le «esportazioni definitive» sia le «trattative contrattuali per le esportazioni definitive». Si scopre così che l’ 8 maggio 2009 la società Mbda Italia ha firmato un accordo da due milioni e mezzo di euro per la fornitura di «materiale per bombe, siluri, razzi e missili» , mentre nell’ottobre dello scorso anno Agusta ha ottenuto due contratti per apparecchiature di alta tecnologia a un costo complessivo di oltre 70 milioni di euro. A novembre la Oto Melara ha invece avviato la negoziazione per «armi o sistemi d’arma di calibro superiore a 12,7 mm oltre a materiale, ricambi, tecnologia know-how, attrezzature». Nel 2010 la Selex Sistemi Integrati, gruppo Finmeccanica, ha siglato un contratto da oltre 13 milioni di euro per materiale e ricambi di apparecchiature elettroniche e apparecchiature per la direzione del tiro». A gennaio la Intermarine spa ha avviato un negoziato da 500 milioni di euro per la fornitura di materiale e software per le navi da guerra» E un mese dopo ha fatto partire una nuova trattativa per 100 milioni di euro, mentre la Oto Melara discuteva la stessa cifra per la fornitura di materiale di uso bellico.
Il fondo d’investimento.
L’ultimo affare la Alenia Aermacchi l’ha siglato il 14 gennaio 2011: fornitura di ricambi per aeromobili per quasi un milione di euroSelex e Oto Melara hanno invece avviato contrattazioni per complessivi 70 milioni di euro, mentre Agusta sta negoziando un contratto da 80 milioni di euro «per apparecchiature elettroniche e materiale per l’addestramento militare o per la simulazione di scenari militari». Non si sa che futuro avranno queste «commesse» , così come ci si interroga sulla presenza del fondo «Libyan Investment Authority» in alcune aziende italiane. Oltre alle partecipazioni azionarie in Fiat, Finmeccanica, Eni e Unicredit, nel dossier si evidenzia il possesso del «31 per cento della società Olcese nel settore manufatturiero, il 7,5 per cento della Juventus e il 33 per cento della Triestina» .

Il Corriere della Sera 26.02.11