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"La potente impotenza dei partiti", di Luigi La Spina

Saranno 30-40 mila persone, oggi, a decidere il nuovo sindaco di Torino. E’ questo il numero dei simpatizzanti del centrosinistra attesi alle primarie e, data la differenza che ha sempre distanziato questo schieramento dal centrodestra, il vincitore dovrebbe conquistare anche l’eredità di Chiamparino.

Eredità difficile quella di uno dei sindaci più amati dai torinesi, più stimato dai cittadini del Nord d’Italia e meno gradito sia alla nomenclatura romana del Pd, sia a quella della capitale subalpina. Perché il successo del passato è sempre un pesante fardello per chi è destinato a raccoglierlo, soprattutto quando il futuro non sembra riservare gli stessi buoni auspici che hanno accompagnato Chiamparino nella sua decennale esperienza sulla poltrona di Palazzo di Città.

Tra i cinque personaggi che si sono presentati alla competizione delle primarie, i due veri candidati alla vittoria sono entrambi uomini di partito, dello stesso partito, quello democratico. Il primo è un leader di lungo corso, ex ministro ed ex segretario dei Ds, Piero Fassino, designato dai vertici romani del Pd e sostenuto dallo stesso Chiamparino. Il secondo, Davide Gariglio, ex popolare precocemente entrato in politica dopo l’esperienza di amministratore delegato dell’azienda torinese dei trasporti locali, è passato, in poche settimane, da semplice outsider in cerca di visibilità cittadina a sfidante temibile e insidioso.

Così, quel ritorno trionfale di Fassino nella sua città, per concludere come sindaco la sua lunga e prestigiosa carriera, si è trasformato in una gara serrata, con punte di asprezza polemica impreviste. E quelle primarie scontate e persino sonnacchiose annunciate alla vigilia sono state caratterizzate da una vivacità propagandistica inusuale tra compagni di partito. Perché il pronostico è largamente favorevole a Fassino, ma le sorprese che finora hanno sempre caratterizzato queste consultazioni interne al centrosinistra, da Bari a Firenze a Milano, non si possono escludere neanche a Torino.

Sulla capitale del Nord-Ovest e sul suo futuro politico, in realtà, aleggia l’ombra di un grande assente. Quello della personalità di prestigio, proveniente dalla società civile, sulla quale si erano appuntate, in prima battuta, le speranze di larga parte della società torinese. Attese così diffuse da indurre i dirigenti dello stesso Pd locale a offrire la candidatura al rettore del Politecnico, Francesco Profumo. Il fallimento del tentativo, al di là delle incomprensioni personali e degli errori tattici che ne hanno compromesso l’esito, assume un significato che fa di questa vicenda torinese l’emblema di una generale condizione politica nazionale: l’esistenza di partiti troppo deboli per esprimere leader autorevoli, carismatici e sostenuti da unanimi consensi tra i militanti, ma troppo forti per consentire a esponenti che non provengano dalle loro file di candidarsi alla guida delle città, delle Regioni o addirittura del Paese.

Il ricorso a una «vecchia gloria» della sinistra torinese come Fassino, con l’effetto di offrire al quarantaquattrenne Gariglio la chance di presentarsi come «uomo nuovo» e simbolo di un possibile rinnovamento delle alleanze di potere cittadino, manifesta i risultati di questo ossimoro partitico: la «potente impotenza» di un centrosinistra ancora in mezzo a un guado. Quello di non saper archiviare una dirigenza onusta di battaglie e di ferite, ma di non possedere una classe dirigente pronta a prendere il suo posto per aver dimostrato di superare prove impegnative e convincenti.

Torino aspetta il verdetto delle primarie con un’attesa indecifrabile, segnata da un apparente distacco, sintomo di timore per un avvenire incerto, ma anche di un consapevole orgoglio per la sua storia, antica e recente. Significativa in questi giorni, a tale proposito, la comparsa, su molti palazzi, di bandiere tricolori, persino in anticipo sull’inizio delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità italiana. Una festa che la città sente tutta e solamente sua, pronta a sfidare la diffidenza, lo scetticismo, persino le ironie di larga parte dell’Italia d’oggi. La coincidenza con un importante cambio di stagione, quello rappresentato dalla fine dell’era Chiamparino, aggrava le inquietudini dei torinesi, nascoste e pudiche come nella natura dei suoi abitanti, ma profonde e diffuse. Chissà se il vincitore, stasera, pur nell’euforia del successo, riuscirà a sentirle, a comprenderne i motivi e a convincere i torinesi che chi ha la memoria di quel passato non può spaventarsi del futuro.

La Stampa 27.02.11