scuola | formazione, università | ricerca

«Studiare è più utile che mai», di Irene Tinagli

E’ già abbastanza difficile essere giovani e prendere decisioni sul proprio futuro. Lo è ancora di più in contesti in cui si ricevono informazioni confuse, superficiali, o addirittura sbagliate. Questo è, purtroppo, il contesto in cui vivono e devono prendere decisioni i giovani italiani.

Un contesto incapace di guidarli ed informarli adeguatamente: solo così si spiega il significativo calo delle iscrizioni all’Università segnalato dagli ultimi dati Almalaurea.

No, non è la crisi il motivo di tale rinuncia. Normalmente in tempi di crisi si osserva il comportamento opposto: considerata la difficoltà di entrare nel mercato del lavoro molti preferiscono tenersi fuori ed investire in istruzione e competenze per rientrare poi, freschi di formazione, in un mercato del lavoro in ripresa. Ed è, infatti, quello che si è osservato negli Stati Uniti, dove il 2009 ha visto un record storico di diplomati iscritti all’Università (oltre il 70%), un boom che denota una voglia di investire in se stessi in attesa di tempi migliori.

In Italia no. In Italia i giovani non hanno fiducia né nella ripresa né nel valore di investire in se stessi. E non ce l’hanno perché i primi a non avercela sono i loro genitori, i loro maestri e i loro governanti. Tutte quelle persone che ormai da tempo continuano a dire che tanto studiare non serve. Che è meglio essere umili, accontentarsi magari di terminare la scuola dell’obbligo e imparare un mestiere. Un diploma è già abbastanza. Nessuno ha detto a questi giovani che la probabilità di restare disoccupati senza un titolo di studio superiore è il doppio che in presenza di un titolo. Certo, nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione nel primo anno dopo la laurea è aumentato dal 15 al 16%. Ma questo dato è la metà del tasso medio di disoccupazione giovanile in Italia. Senza contare che, comunque, a cinque anni dalla laurea l’80% dei laureati ha un lavoro stabile, mentre chi è senza istruzione tende a cumulare precarietà. E nessuno dice ai giovani che, anche in presenza di un titolo, c’è un’enorme differenza di prospettive tra un diploma e una laurea. Dati Istat indicano che nell’arco della vita lavorativa i laureati hanno un tasso di occupazione di oltre 11 punti percentuali maggiore rispetto ai diplomati (77% contro 66%). Non solo, guardando al lungo periodo i laureati hanno retribuzioni che in media sono superiori del 55% rispetto a quelle dei diplomati. Un gap che chiaramente si accumula con il tempo e che si reduce tra i più giovani. Ma anche nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni la retribuzione dei laureati supera del 30% quella dei diplomati. E’ sciocco quindi consigliare ai giovani di non andare all’università perché i salari di ingresso sono analoghi tra laureati e diplomati. Un salario di ingresso dura un anno, ma una vita professionale ne dura minimo 30. E l’effetto dell’istruzione nell’arco di questi 30 anni è enorme.

E’ vero, il mito della laurea che appena conseguita ti garantisce il posto fisso e ben pagato è andato sgretolandosi – in Italia come in molti altri Paesi -, così come è vero che i nostri laureati rispetto ai loro genitori hanno una vita più difficile, ma il valore dell’istruzione resta comunque indiscusso anche per le nuove generazioni. Anzi, in un mondo sempre più qualificato studiare è più necesario che mai. E la vera scommessa per qualsiasi Paese che abbia la voglia e la forza di guardare al futuro non è istigare i giovani a deporre le armi ai primi segnali di incertezza che trovano agli inizi di carriera, ma al contrario adoperarsi ed investire per aiutarli ad orientarsi, per dargli il coraggio di guardare avanti.

Perché se questi ragazzi rinunciano ad investire in se stessi a farne le spese non sarà solo il loro futuro, ma quello di tutti noi. Come pensiamo noi di riqualificare e rilanciare il nostro sistema economico e produttivo con una forza lavoro che anziché qualificarsi si dequalifica? Come pensiamo noi di sopravvivere in un mondo in cui anche la competitività di Paesi emergenti come Cina e India è sempre più trainata da scienza, cultura e tecnologia quando non riusciamo a far laureare nemmeno il 20% dei nostri giovani?

Il quadro che emerge dal continuo calo di iscrizioni universitarie è scoraggiante. E’ il quadro di una generazione senza direzione, senza guida, senza fiducia nel futuro. Un tratto che non è tipico dei giovani, ma che è frutto di un Paese che ha perso il senso stesso della parola futuro, identificata ormai delle sue stesse classi dirigenti con la prossima tornata elettorale e con la fine o meno del proprio mandato. Ma questi giovani hanno tutta la vita davanti. Diamogli un motivo per affrontarla a testa alta, con grinta e determinazione. La loro rinuncia è una sconfitta per tutti noi.

da www.lastampa.it

******

«Laurearsi serve sempre (e si guadagna di più)», di Raffaello Masci

Nonostante il calo delle iscrizioni, per Almalaurea il titolo universitario resta il miglior investimento. Se un diplomato guadagna 100, il laureato arriva a 155. Ed è anche più facile trovare il lavoro giusto

Sia chiaro: studiare serve e laurearsi serve ancora di più. Ieri abbiamo pubblicato i dati del consorzio Almalaurea sul destino dei laureati italiani negli ultimi cinque anni, e abbiamo sottolineato come la laurea, il famoso pezzo di carta agognato dalle mamme e poi tenuto incorniciato nel tinello, avesse perso gran parte del suo potere di attrazione. Nelle patrie università, insomma, negli ultimi cinque anni si era assistito ad una diminuzione sistematica delle immatricolazioni, superiore al 9%: 26 mila studenti in meno. Almalaurea ribadisce oggi che, comunque, laurearsi è ancora oggi la via più certa per trovare un lavoro prima e meglio.

«Il calo delle immatricolazioni non deve meravigliarci – dice Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea – in quanto è il frutto di tre fattori concomitanti. Primo, negli ultimi 25 anni i diciannovenni sono diminuiti del 38%. C’è stato un oggettivo calo demografico. Secondo, il tasso di passaggio tra scuola superiore e università è crollato di 9 punti (dal 75 al 66 per cento) a motivo della controversa immagine che l’università italiana ha dato di sé: dalle parentopoli, agli sprechi, alla moltiplicazione dei corsi inutili. Terzo, la laurea triennale (mantenere un figlio agli studi 3 anni invece di 5) ha aperto gli atenei a fasce di popolazione prima escluse, ma poi queste stesse si sono trovate di fronte al problema dei costi aumentati e non ce l’hanno fatta più».

Da qui il calo degli iscritti. Ma l’università paga. Tutti i dati statistici confermano – infatti- la diretta proporzionalità tra laurea, occupazione e reddito. Se prendiamo i diplomati e i laureati usciti dai rispettivi corsi di studio nel 2004 e li andiamo a rivedere nel 2009 (a cinque anni di distanza), scopriamo che esiste uno zoccolo duro di persone non ancora occupate, pari al 14,8% dei diplomati e al 12,1% dei laureati triennali. Ma mentre un lavoro continuativo (anche se non fisso) ce l’ha il 37% dei diplomati, questo dato sale al 67% tra i laureati. Un impiego a tempo indeterminato ce l’hanno il 18% dei diplomati, ma ben il 37% dei laureati. Complessivamente, quindi, i laureati lavorano molto di più e con maggiore stabilità rispetto a chi ha studiato di meno, come conferma il tasso di occupazione complessivo che, nel caso dei laureati, presenta un vantaggio di 11 punti sui diplomati (66 contro 77 per cento).

Si ribatte che, però, i dottori guadagnano poco. «Se noi consideriamo le retribuzioni sull’arco dell’intera vita lavorativa, un diplomato oggi guadagna 100 quando un laureato arriva a 155: il divario è enorme – spiega Cammelli – e l’abbaglio che molti prendono quando osservano che un diplomato prende più di un laureato, dipende dal fatto che osservano le retribuzioni iniziali, e quando il laureato si mette sul mercato del lavoro il diplomato c’è già da almeno quattro anni. Sui tempi medi e lunghi la differenza appare invece evidente e tutta a vantaggio dei laureati».

Ciò detto non tutte le lauree sono uguali e altrettanto spendibili. Uno studio di Confindustria ha rilevato il numero dei laureati di un anno accademico e quello richiesto dal sistema delle imprese nello stesso anno: alla luce di questi dati si nota come l’Italia abbia bisogno ancora oggi di 20 mila ingeneri in più, 15 mila economisti e statistici, 8 mila medici e sanitari. Per contro c’è un esubero annuo di 4 mila psicologi, quasi 17 mila laureati in lettere o lingue, 4 mila architetti, 3 mila geologi, eccetera. «Non c’è, dubbio – continua Cammelli – che le lauree scientifiche, tecnologiche ed economiche danno una possibilità di impiego più rapida delle altre. Tuttavia, valutati i laureati a distanza di 5 anni, anche quelli delle lauree generaliste hanno trovato un lavoro. Impiegando solo più tempo».

da www.lastampa