attualità, politica italiana

"La giustizia secondo il re dei caimani", di Franco Cordero

Anche i profani vedono dove punti il disegno governativo d´una riforma della giustizia, quando passano sullo schermo presidente del Gonsiglio e guardasigilli in carnevalesca conferenza stampa. Divus Berlusco tiene in mano: le sagome d´una bilancia dai piatti più o meno equilibrati; e nel tono grave degli annunci che fanno storia, spiega quanto guadagniamo in civiltà giuridica; pensate, se tali norme esistessero anno Domini 1992, i signori al governo continuerebbero i loro giochi, restando immobili le acque giudiziarie. Stupore nel pubblico: era una repubblica corrotta; dovunque l´indagante grattasse col dito, erompeva del malaffare. Chiaro dunque l´obiettivo, impunità piena: l´attuale corruzione è multipla rispetto ad allora e rimarrà sommersa appena i dialoghi sporchi non siano più intercettabili, prossimo obiettivo; invano la Corte dei conti ripete l´avvertimento. Le idee hanno marchio piduista. Licio Gelli vanta diritti d´autore: figuravano nel “Piano” d´una “rinascita democratica” databile 1976; qualche anno dopo vi pesca Bettino Craxi (previsione lungimirante della tempesta in cui naufragherà); le ricicla l´allora suo protetto, odierno regnante. Spira vecchiaia nello pseudonuovo italiano.
Cominciamo dall´azione penale. È potere esclusivo del pubblico ministero: la esercita imputando a qualcuno l´ipotetico reato; così instaura i processi, il cui solo possibile esito è la sentenza; e ha l´obbligo d´agire (art. 112 Cost.), ogniqualvolta l´accusa risulti sostenibile; può astenersene solo col permesso del giudice, finché nuovi materiali o i precedenti, diversamente valutati, non esigano una riapertura delle indagini. Le scelte discrezionali sono un lusso che possono permettersi paesi dalle midolla politiche sane, dove il governo paghi cari i trucchi o le omissioni: supponendo che gli uffici dell´accusa dipendano dal potere esecutivo, ne risponde il ministro; e dati i costumi parlamentari italiani, nessuno vi fa caso. Ancora meno auspicabile sarebbe un pubblico ministero agente sovrano, che non risponda a nessuno. Insomma, sotto le lune d´Italia l´azione obbligatoria non ammette alternative. Perciò le res iudicandae penali sono indisponibili: l´attore pubblico non può desistere; se cambia idea, concluda a favore dell´imputato; come stiano le cose, lo dirà il giudice, assolvendo o condannando secondo parametri legali. Che una legge regoli le priorità del lavoro, sta nell´elucubrabile, sebbene materie simili escludano criteri rigidi, troppe essendo le variabili da calcolare, ma è idea matta l´improcedibilità dei casi scomodi all´esecutivo (dormano, ibernati, finché venga un turno indefinitamente rinviabile). Vuol rendersi utile il ministro? Fornisca all´apparato i mezzi necessari. Sinora usava mano pesante nei tagli.
Secondo colpo letale. I magistrati requirenti dispongono «direttamente della polizia giudiziaria» (art. 109 Cost.): nel sistema perverso che B. spaccia come «riforma epocale», perdono la guida del caso, ridotti a organi d´un lavoro grafico o vocale sui materiali ricevuti; li fornisce una polizia ubbidiente ai superiori anche nei passi investiganti; e diventano possibili interferenze da strateghi occulti. Questo pubblico ministero sfigurato non corrisponde al modello d´una pari abilità istruttoria (art. 111 Cost., cc. 2 e 3). Sua Maestà cova antichi rancori, ritenendosi vittima d´attenzione irrispettosa: soltanto lui sa quanto gli siano costate le partite da cui usciva d´un soffio; e voleva ridenominarlo «avvocato dell´accusa», reclutabile o elettivo. Sulle «carriere separate» conviene intendersi: niente d´aberrante, diverse essendo le funzioni, purché resti identico lo stato giuridico; l´art. 104 Cost. postula magistrati autonomi, ossia «indipendenti da ogni altro potere». L´autonomia va in fumo ogniqualvolta nel Consiglio superiore, organo d´autogoverno, risulti soverchiante o anche solo pari la componente esterna. Come non bastasse, i castigatori gli confiscano la giurisdizione disciplinare. Ancora un passo e torniamo alla monarchia assoluta. La previsione d´azioni civili dalle parti private contro il magistrato è misura intimidatoria o logorante: chi crede d´avere subito danni risarcibili muova causa allo Stato; l´eventuale rivalsa compete al presidente del consiglio.
Infine, riappare un´idea graziosamente asinina, già liquidata dalla Consulta (6 febbraio 2007 n. 26): che il proscioglimento non sia più appellabile dal pubblico ministero. Qualcuno invoca esempi anglosassoni, non vedendo l´enorme differenza: i verdetti delle giurie non sono mai appellabili, da nessuna delle parti, assolvano o condannino, perché quel consesso a dodici teste sostituisce antichi giuramenti purgatori, ordalie, duelli ossia decisioni a fondamento non razionale (tale era anche il vere dictum, prodotto d´empatia comunitaria); l´appello, strumento romano, mira al rifacimento critico; e se la condanna è appellabile, dev´esserlo anche il proscioglimento, avendo due facce l´errore possibile; i contraddittori stanno su piedi diseguali quando uno perda il rimedio concesso all´avversario. Lo vieta l´art. 111 Cost., né basta immettervi una deroga: vi osta l´art. 3, implicante simmetrie fondamentali; e toccare l´art. 3 (siamo eguali davanti alla legge, con i sottintesi sviscerati dalla Corte) non è più revisione costituzionale; sarebbe il collasso dell´ordinamento e salto indietro al potere arbitrario d´un dominante. Discorsi ovvi ma la mens berlusconiana li rifiuta. Qui distinguiamo monarca e sudditi: uno appartiene alla storia naturale, i cui dinamismi talvolta riescono catastroficamente dannosi (tempeste, epidemie, terremoti ecc.); rispetto a lui non hanno corso logica, estetica, morale; opporgliele ha l´effetto d´una predica al re dei caimani. Nelle file cortigianesche il fenomeno richiama generi teatrali: non opera seria e nemmeno buffa; chiamiamola grottesca, quale L´Opera del mendicante (John Gay, Londra 1728), rifatta dopo due secoli da Bertold Brecht (Georg Wilhelm Pabst ne cava un film) ma la nobilitano musiche incantevoli, nonché cupe tensioni drammatiche. Qui è bassa prosa, con qualche aspetto turpe.

La Repubblica 12.03.11

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