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«Italia, la vera sfida è quella di darsi un futuro», intervista a Giuliano Amato di Federica Fantozzi

Giuliano Amato è costituzionalista, docente universitario, ex premier e ministro di diversi governi (da ultimo: al Viminale con Romano Prodi nel 2006), oggi alla guida della Treccani. È il presidente del comitato dei garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia che avranno il loro culmine giovedì 17 marzo. Del tema ha parlato ad una platea internazionale alla conferenza a inviti promossa dal Consiglio per le Relazioni Italia-Usa e dal German Marshall Fund.
Professore, l’Italia unita compie 150 anni. Tanto o poco?
«L’Italia era culturalmente una nazione molto prima di essere Stato. Non solo in un affresco di Cimabue ad Assisi troviamo la parola Italia, ma il nostro patrimonio, cioè il linguaggio comune, esiste da secoli: scorre da Petrarca a Leopardi. Il problema di passare da entità culturale a politica si pose nel 19esimo secolo, e non a caso la Repubblica Cisalpina adottò già allora il Tricolore».
Che Paese siamo?
«Nato da diversi ingredienti: l’azione sovversiva di Mazzini, quella militare di Garibaldi. Cavour usò entrambi per sostenere l ’unificazione: la sua abilità politica assorbì e istituzionalizzò i moti. Noi oggi festeggiamo la proclamazione del Regno d’Italia. Personalmente sono convinto che l’Italia che abbiamo fosse l’unica possibile, ma molti ne sognavano una diversa. Possibile fu solo il centralismo piemontese, frutto inesorabile della debolezza iniziale dello Stato. Certo è che la questione del Sud, che era stato protagonista dell’unificazione e che fu poi trattato come terra di conquista, ce la trasciniamo da allora».
La crisi economica ci lascia qualcosa da festeggiare?
«L’Italia ha saputo correre in diversi periodi della sua storia, specie nel secondo dopoguerra dello scorso secolo. È negli ultimi vent’anni che l’economia si è fermata. La produttività è al palo e nell’Eurozona cresciamo meno di altri. La questione è: come
è successo e dove ci porterà?».
Ce lo dica lei.
«Vedo diverse cause. Il mondo delle piccole imprese non può permettersi gli alti salari che richiedono ricercatori e lavoratori qualificati. Il capitalismo familiare spesso, quando ha accumulato risorse per figli e nipoti, si disinteressa delle sorti dell’azienda, magari la vende ad acquirenti esteri. Le dinastie hanno un ruolo nel restringimento del nostro sistema industriale».
I giovani: bamboccioni o cittadini involontari di un mondo peggiore di quello dei loro avi?
«I giovani hanno difficoltà a impegnarsi e correre rischi per un futuro che appare privo di prospettive tangibili. Per loro è un paradiso perduto. Tutti i protagonisti del Risorgimento erano ventenni: Mazzini aveva 25 anni quando, già esule, fondò la “Giovine Italia”, Mameli compose l’inno a 19, Garibaldi era un anziano trentenne quando già passava da un continente all’altro».
Dopo di loro, il diluvio?
«No, quando Piaggio inventò il successo mondiale della Vespa aveva 20 anni. Insomma, nei momenti in
cui l’Italia ha saputo esprimere un futuro, i giovani sono stati in prima fila. Oggi non riesco a immaginare un loro coetaneo che diviene leader politico o capitano d’industria. Il nesso è chiaro, così come è chiaro il nesso con lo stallo della nostra economia. Indagarlo può essere un modonuovo di festeggiare questo anniversario».
I giovani hanno perso la capacità di fare progetti a lungo termine o anche di sognare?
«C’è anche un fattore demografico. Si dice che fra meno di dieci anni i settantenni saranno la coorte maggioritaria in Italia. Ovvio che l’attenzione al futuro sia limitata da parte di chi ha un futuro limitato».
Una prospettiva non incoraggiante.
«Poi c’è il fattore capitale: nuove avventure come Silicon Valley, a prescindere dalle capacità intellettuali e tecnologiche, sono più difficili senza qualcuno che le sostenga. Dopo la crisi alle banche si impone di ridurre i rischi e per diverse di loro il modo migliore è non prestare soldi. Bizzarro per chi ne ha la missione».
Al di là della retorica, siamo ancora capaci di indignarci?
« Il problema per me non è la capacità di indignarsi, ma quella, insisto, di darsi un futuro. A rischio di passare per un vecchio conservatore, vedo che scivoliamo sempre più in basso sui valori, l’etica, la differenza tra giusto e sbagliato. Siamo forse l’unico Paese dove i valori si applicano solo alla vita pubblica e non privata. Attenti però: se perdi il contatto con
questi valori lo perdi con il futuro».
Perché è così importante non perdere contatto con i valori nella propria vita privata se li si mantiene nella vita pubblica?
«Il futuro necessita sacrifici. Riduci i benefici del presente per il domani. Un tempo si diceva: per i figli ci si leva il pane di bocca. Oggi facciamo esattamente il contrario».
L’Italia è pronta per il federalismo?
«Siamo abbastanza forti, sì. La paura di Mazzini era che il federalismo ci riportasse al Medioevo. Non credo
si debba avere questo timore,ma esistono dei rischi».
Quali rischi?
«Lo Stato centralizzato ha in sé una forza che tiene insieme i pezzi, se adotti l’architettura federale l’unità
dipende solo dalla volontà dei componenti. Alla domanda perché la Svizzera esista, gli svizzeri rispondono: perché noi lo vogliamo. Ecco: dobbiamo esser certi, con il federalismo, che l’Italia esisterà perché la vorranno gli italiani».
Ha visto partecipazione per questo anniversario?
«Ho visto grande attenzione al passato. Ma ciò che può davvero unire è il futuro. Se credi in un futuro comune, trovi un patrimonio e un’eredità comuni, altrimenti scopri rivalità e antenati diversi. Ricordiamolo: è pensando al fal futuro che leggi il tuo passato».

L’Unità 14.03.11