attualità, lavoro, pari opportunità | diritti

"Più fatica con meno diritti per le donne del commercio", di Laura Matteucci

C’era una volta il contratto a termine, e sembrava l’ultima frontiera della precarietà. Adesso, complice una crisi che ha molto penalizzato i commercianti piccoli e medi, molto meno la grande distribuzione (solo l’anno scorso hanno chiuso qualcosa come 100mila esercizi commerciali, e 20mila precari sono rimasti a casa), il settore del commercio è arrivato alla fiera delle tipologie contrattuali: da quello a progetto a quello per cui si gestisce un singolo negozio di una catena assumendosi il rischio d’impresa, con un fiorire di part-time sempre più fantasiosi, da 20, 16 e pure 8 ore, il part-time con cui si lavora solo nei week-end o nel periodo natalizio. Il commercio: 3 milioni circa di addetti tutto compreso (dalle agenzie interinali alle concessionarie di auto), 400mila nella grande distribuzione, donne nell’80% dei casi, a barcamenarsi tra poche centinaia di euro di stipendio, pause contingentate, domeniche obbligatorie, ore e ore passate in piedi, orari di lavoro frammentati, con anche 4-5 ore di attesa tra la fine di un turno e l’inizio del successivo, troppo poche per andare a casa, troppe da dover far passare senza lavorare. Alla faccia della conciliazione tra tempi di vita privata e di lavoro. E, dal 26 febbraio, con un problema in più: il contratto fresco di firma da parte di Fisascat-Cisl e Uiltucs e di bocciatura da parte della Filcams Cgil. All’attivo dei delegati Filcams, ieri a Milano, malumore palpabile: «Un accordo che peggiora il precedente», dice la segretaria Cgil Susanna Camusso, e politicamente molto significativo: «Questo accordo non è come gli altri: è il primo in cui non sono più comprensibili le ragioni degli altri». Uno di questi è certo il segretario Cisl Raffaele Bonanni che, all’omologa assemblea dei «suoi», sempre ieri ma a Roma, parla invece di «contratto vantaggioso: i consumi scendono, il settore è in difficoltà, e l’accordo porta ad un aumento di quasi 90 euro».
FAZZOLETTI ROSSI L’aumento effettivo (a regime, in tre anni) è di 86 euro (meno 2 che andranno a contributo della sanità integrativa, prima a carico delle imprese), ma in realtà non è questo che preoccupa i lavoratori. Più sentito, il problema dell’indennità di malattia fortemente ridotta in nome di una lotta all’assenteismo peraltro non documentato: con tre malattie all’anno i primi tre giorni vengono pagati al 50%, oltre le cinque non vengono pagati affatto. «Poi c’è la partita della contrattazione di secondo livello – spiega GianMario Santini, segretario Filcams Lombardia -Dauna parte viene blindata, cioè viene esclusa la possibilità di contrattare per una serie di materie, premi e indennità fissi per esempio.Madall’altra si apre alla possibilità di derogare dal contratto nazionale ». I delegati si sentono di pagare ancora una volta il costo della crisi perchè, come dice Camusso, «non si capisce dove sia avvenuto lo scambio, se non fuori dalla dimensione dei lavoratori», e defraudati di diritti già acquisiti. Una lavoratrice della Li dl di Venezia ricorda quando, fino a qualche anno fa, alle donne del suo centro commerciale veniva chiesto di indossareun fazzoletto rosso il 28esimo giorno del ciclo per potere andare in bagno una terza volta oltre le due concesse abitualmente. Una barbarie cui solo l’intervento dei sindacati ha posto fine. Ma il contratto, se piace a Bonanni ed Angeletti, fa invece storcere il naso anche a molti «loro» lavoratori. A testimoniarlo, si sono già svolti alcuni scioperi unitari, come al negozio Carrefour di Carugate (Milano) o quello nazionale della Cgt, concessionaria italiana della Caterpillar, deciso dalle Rsu: sciopero simbolico di un’ora, venerdì scorso, a significare la contrarietà di tutti i dipendenti. E le parole di Camusso a conclusione dell’assemblea sembrano partire proprio da qui: «Molti pensano – dice – che bisognava fare lo sciopero generale prima e più roboante. Il tempo che ci siamo dati vorrei possa servire a far sì che sia uno sciopero di tutti i lavoratori, non solo dei militanti della Cgil». In altre parole, Camusso chiama al superamento di uno «sciopero identitario» perchè quello del 6 maggio sia «di tutti, per avere una politica diversa, a favore del lavoro».

L’Unità 16.03.11