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"Centocinquant'anni di Unità d'Italia. La trappola di credere che non siamo una nazione", di Stefano Folli

È singolare che qualcuno si preoccupi di un eccesso enfatico nelle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità. A dire il vero in tali manifestazioni non si scorge traccia né di enfasi né di retorica. Non solo per l’ottimo lavoro svolto dal comitato presieduto da Giuliano Amato (e prima di lui da Carlo Azeglio Ciampi), ma soprattutto perchè l’atmosfera di questo 17 marzo è tale da suggerire una generale sobrietà.

Si è detto che il modo giusto di celebrare consiste nel riflettere sull’identità italiana, sulle sue opportunità e i suoi limiti. Ma non è ciò che sta accadendo? In una nazione che troppo spesso è priva di memoria e non crede nel futuro, quasi vivesse in un eterno presente, il centocinquantenario ha spinto molti a riflettere. Forse è la prima volta che accade. Nel 1911 i primi cinquant’anni furono festeggiati – mentre le nostre truppe occupavano la Libia – nel registro glorioso di un’Italia che si pretendeva grande fra i grandi nel concerto europeo.
Nel 1961 il centenario coincise con il miracolo economico al suo culmine. L’espansione non era più militare, bensì industriale e di costume. Oggi invece c’è un declino da contrastare, meglio se con ottimismo e tenacia. C’è un paese che tende a lacerarsi da mantenere unito. L’anniversario rappresenta una discriminante. Si tratta di guardare al passato per ritrovare il senso di una storia nazionale, ma al tempo stesso siamo consapevoli che l’Italia del 2011 non può fare a meno di proiettarsi nel futuro, rimuovendo gli ostacoli che bloccano la strada.
Del resto, il passato divide meno di quanto si creda. Nonostante certi sforzi degni di miglior causa, il «revisionismo» risorgimentale non convince; più che altro perchè non poggia su alcuna novità frutto di ricerca, ma ripropone vecchi e arcinoti motivi polemici. Le opere revisioniste che hanno invaso le librerie non aiutano in nulla o quasi la comprensione dei fatti così come si sono svolti.

Del Risorgimento e dei suoi attori sappiamo pressochè tutto, semmai ce ne dimentichiamo. Conosciamo anche le contraddizioni o se si vuole gli errori commessi in certi casi dalla classe dirigente post-unitaria. Tutto è stato già scritto con l’autorevolezza dei grandi storici. Chi irride al processo di riscatto nazionale, alle sue forme e ai suoi protagonisti, in realtà asseconda obiettivi politici che nulla hanno a che fare con l’analisi storica. Quindi il problema non è «ridiscutere» il Risorgimento, bensì evitare le trappole. La principale consiste nel credere che non siamo una nazione. Questo è il punto su cui occorre fare chiarezza in occasione del 17 marzo. Il futuro ha diversi volti, a seconda di quale idea d’Italia si affermerà nei prossimi tempi.

Tutti dicono «federalismo», la parola magica del centocinquantenario. Ma è evidente che il federalismo (fiscale, amministrativo, soprattutto istituzionale) ha un senso solo se poggia su di un forte senso nazionale. Nel federalismo l’identità è più solida, non più debole. Chi sostiene il contrario sta truccando le carte. Negli Stati Uniti l’altra faccia dell’impianto federale è un patriottismo talmente vigoroso che talvolta è sfociato nel nazionalismo. Viceversa, in Belgio si è arrivati a un passo dalla secessione.

Cosa vuol dire? Che le polemiche sul passato sono folkloristiche, ma possono diventare pericolose quando nascondono l’intenzione di dividere gli italiani, lasciando filtrare l’impressione che l’Italia non è mai veramente nata e anzi è una costruzione artificiosa. Finchè permane questa ambiguità, alimentata in particolare dalla Lega, il futuro è incerto. Il 17 marzo sarà un successo se sapremo riconoscere questo nodo cruciale e scioglierlo. Poi ben venga il federalismo, se vuol dire nel tempo maggiore efficienza delle amministrazioni locali e regionali, minor debito, uno Stato meglio articolato e più moderno.

Oggi rispondere agli interrogativi del 17 marzo significa uscire dalla gabbia di questo eterno presente grigio e pervasivo, così da riannodare senza imbarazzi i fili del passato, cioè di una storia nazionale che riguarda il Nord come il Sud. E’ una memoria che non può essere rimossa o peggio rinnegata perchè tutti pagheremmo un prezzo altissimo a un tale assurdo ripudio.

Il Sole 24 Ore 17.03.11