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"Solo noi donne possiamo costruire una nuova Africa", di Juliet Torome*

In Kenya, il mio Paese d’origine, si usa dire che quando due elefanti combattono, è l’erba a soffrirne. E questo è evidente nei numerosi conflitti che l’Africa ha visto negli ultimi 50 anni. Nella Repubblica Democratica del Congo, le bande di predoni che pretendono di essere combattenti per la libertà, e l’esercito governativo che li combatte, hanno usato per decenni lo stupro come arma contro donne indifese. Dopo la fine del genocidio ruandese, il pesante fardello di ricostruire una società devastata è stato sostenuto dalle donne del Paese.

Eppure, quando si tratta di azioni per evitare tali crisi, le donne africane spesso vengono lasciate da parte. Si considerino gli attuali sforzi dell’Unione africana per trovare una soluzione all’impasse politico seguito alle elezioni in Costa d’Avorio. Tra i cinque leader africani convocati in occasione del vertice dell’Unione africana ad Addis Abeba, in Etiopia, per coordinare i negoziati, non c’era nemmeno una donna.

E, cosa ancora più offensiva per le donne africane, l’Ua le ha bypassate a favore di uomini il cui impegno a favore della democrazia e dei diritti umani è persino peggio di quello di Laurent Gbagbo, l’uomo aggrappato alla presidenza ivoriana nonostante abbia perso le elezioni. Dei cinque uomini designati per guidare la missione per convincere Gbagbo a dimettersi, solo due – Jakaya Kikwete della Tanzania e Jacob Zuma del Sud Africa – possono affermare di essere arrivati al potere democraticamente. Gli altri tre, Mohamed Ould Abdel Aziz della Mauritania, Idriss Déby del Ciad, e Blaise Compaore del Burkina Faso, hanno preso il potere grazie a colpi di Stato, alcuni dei quali violenti. La situazione è ancora più ironica. L’Ua è piena di uomini che non sono migliori di Gbagbo. Meles Zenawi, che ha ospitato il summit, ha governato l’Etiopia per quasi 20 anni e non ha convinto nessuno della regolarità e della correttezza delle elezioni al di fuori della sua cerchia di amici intimi.

Nemmeno il nigeriano Goodluck Jonathan, che è a capo della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) e sostiene l’intervento militare contro Gbagbo, esce indenne da questo esame. Jonathan oggi è Presidente della Nigeria perché il defunto Umaru Musa Yar’Adua, suo predecessore, andò al potere grazie a quelle che molti considerano elezioni truccate. E cosa potrebbe dire il primo ministro del Kenya Raila Odinga se Gbagbo gli chiedesse come mai lui – a differenza di Alassane Ouatarra, che l’Ua riconosce come presidente legittimo della Costa d’Avorio – ha accettato un accordo di condivisione del potere dopo le contestate elezioni presidenziali del 2007?

Finché l’Africa sarà piena di questi uomini discussi, l’applicazione di «soluzioni africane ai problemi africani», come amano dire, non arrecherà alcun beneficio al continente. So che molti sostengono che il pool di donne africane note è limitato alla presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf, al Nobel per la pace Wangari Maathai, a Ngozi Okonjo-Iweala, ex ministro delle Finanze nigeriano e attuale vice presidente della Banca Mondiale, e a Graça Machel, ex first lady del Mozambico e del Sudafrica, e poche altre. Potrebbero anche avere ragione, ma una qualsiasi di queste quattro donne potrebbe svolgere un’opera di mediazione dei conflitti africani più efficace di tutti i presidenti dei Paesi dell’Ua messi insieme.

Il problema con l’Africa è che spesso i funzionari governativi di più alto rango non hanno le migliori soluzioni. In molti casi, i funzionari di rango inferiore, o anche qualcuno al di fuori del governo, potrebbero essere più efficace. A volte ciò di cui l’Africa ha bisogno è maggior buon senso e persone che – a differenza dei potenti «grandi uomini» africani – sono disposte a mettere da parte l’orgoglio e porre domande semplici che gli altri non vogliono affrontare.
Una donna al vertice di Addis Abeba avrebbe potuto, per esempio, chiedere a coloro che invocano la guerra di spiegare come, data la loro incapacità di controllare milizie mal armate in Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Uganda, e altrove, hanno intenzione di sconfiggere Gbagbo. Una donna avrebbe potuto ricordare a quelli che minacciano di fare la guerra a Gbagbo che, iniziati i conflitti, gli uomini vanno a combattere nella giungla, lasciando le donne a prendersi cura dei bambini.

Sono le donne che dovranno poi raccogliere quel poco che hanno e fuggire nei Paesi vicini, che stanno già lottando per sfamare i propri figli. E sono le donne che saranno violentate, mutilate e uccise, come il mondo ha visto di recente ad Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio, quando le forze di Gbagbo hanno massacrato sette donne nel corso di una protesta pacifica.

Ci fossero state delle donne a capo dell’Ua, avrebbero saputo che il machismo degli uomini africani non permette loro di essere scossi dalla minaccia di un confronto violento. Una donna non avrebbe detto a Gbagbo, «Arrenditi o affronta la guerra». Invece, Graça Machel avrebbe potuto raccontargli quanto Nelson Mandela, suo marito, sia stato felice di andare in pensione. Wangari Maathai avrebbe parlato a Gbagbo di ex leader africani, come Daniel arap Moi del Kenya, che nonostante la pessima condotta in tema di diritti umani mentre era in carica, è stato perdonato perché ha scelto di rispettare la volontà del popolo.

Come Thomas Sankara, l’uomo che Compaoré esautorò nel 1987 per diventare presidente del Burkina Faso, «Le donne reggono l’altra metà del cielo». Purtroppo, gli uomini dell’Unione africana ci hanno emarginato e il cielo in Costa d’Avorio sta di nuovo per crollare.

*Juliet Torome, scrittrice e regista, ha ricevuto il primo premio Flaherty per i documentari assegnato da CineSource Magazine
traduzione di Carla Reschia

La Stampa 20.03.11