attualità

"Il male minore", di Luigi Manconi

Nella società del rischio, può accadere di trovarsi sotto ricatto. Può succedere più di una volta nell’esistenza del singolo così come nella vita sociale. E può capitare che il ricatto fisico – l’intimidazione, la pressione intollerabile, attuata con mezzi coercitivi che limitano la libertà e l’autonomia – si intrecci a quello ideologico o morale. È lecito pagare un riscatto per una persona cara quando so che, così facendo, alimento il mercato dei sequestri? È indispensabile sapere che non esistono soluzioni semplici né vie di uscita lineari. Ed è altrettanto indispensabile capire che non è possibile restare innocenti né scegliendo una strada né optando per quella in apparenza opposta. Bombardare Tripoli significa – anche provocare danni incalcolabili e causare vittime civili.
Non bombardare Tripoli significa – anche – non impedire (= consentire) che Muammar Gheddafi, porti a compimento il massacro degli oppositori. C’è una “terza soluzione”? Oggi non so, ieri certamente sì. Ma andava perseguita per tempo, molte settimane fa. Una soluzione che prevedesse il riconoscimento degli insorti, il sostegno alla loro mobilitazione, il ricorso a tutti gli strumenti di pressione nei confronti del regime, una intelligente politica delle sanzioni, un’opera di isolamento internazionale attraverso il coinvolgimento di paesi arabi e africani e – so di scandalizzare o di passare per ingenuo l’offerta di una via d’uscita tramite la concessione di un salvacondotto e la possibilità dell’esilio (ciò che non venne fatto e che forse si sarebbe potuto fare per Saddam Hussein). Di tutto questo, nulla è stato nemmeno tentato. Per più ragioni, e una riguarda direttamente l’Italia. Nel 2008 il nostro Paese ha firmato un Trattato di amicizia con la Libia, che traduceva il progetto iniziale del Governo Prodi in un dispositivo prevalentemente finalizzato a una politica di “contrasto all’immigrazione”. Sta qui l’origine del disastro.
Risarcimenti abnormi e cooperazione industriale, forniture d’armi e mercato dell’energia: come merce di scambio, il pattugliamento congiunto del Mediterraneo, i campi profughi in Libia, il blocco delle partenze dalle coste africane, la strage di migranti nel deserto. Tutto ciò senza che alla Libia venisse chiesto un solo atto di rico-
noscimento formale e sostanziale dei diritti universali della persona, della tutela dell’incolumità dei migranti e dei profughi, delle convenzioni internazionali a presidio della dignità umana. In assenza di tutto ciò l’Italia ha chiesto solo un’opera di polizia, esercitata sempre con rigidità e talvolta con efferatezza, “nella piena cooperazione” tra le forze di sicurezza di un regime dispotico e quelle di un sistema democratico.
Si trattava di un’operazione di facciata crollata dopo diciotto mesi e comunque resa vana dal fatto che i flussi di migranti si ingrossassero e scegliessero rotte diverse da quelle per Lampedusa. Ciò ha consentito al ministro Maroni di dichiarare “sbarchi zero”, senza indicare quanti, nel frattempo, fossero approdati in Calabria o in Puglia, e quanti fossero morti in mezzo al mare e nel deserto. È questo che evidentemente, ha impedito all’Italia di adottare quella “terza soluzione” prima indicata, e di svolgere quel ruolo quando sarebbe stato possibile esercitarlo. Ma oggi, nella situazione ormai precipitata, è ancora giusto invocare il ricorso esclusivamente a strumenti diversi da quelli militari? È ancora possibile evitare di rispondere con la forza alla forza? È attuabile una strategia interamente affidata a mezzi politici e diplomatici? A me non sembra più tempo. E, dunque, si impone quel principio fondamentale, così elementare e ragionevole e, insieme, così eticamente fondato, ancorché terribilmente doloroso, che è il “male minore”. Possiamo, sì, continuare a batterci perché politica e diplomazia prendano il posto delle armi, ma a patto di sapere che ogni secondo che passa aumenta la possibilità di Gheddafi di fare strage del suo popolo.
Si può dire: preferisco che la strage si compia, con le sue conseguenze, piuttosto che arrendermi alla guerra e a ciò che la guerra porta con sé. Nell’un caso come nell’altro, non avremo salvato l’anima e saremo corresponsabili, anche solo per impotenza o ignavia, di nuovi morti. Ma una scelta va fatta. E io scelgo il male minore.

Nella società del rischio, può accadere di trovarsi sotto ricatto. Può succedere più di una volta nell’esistenza del singolo così come nella vita sociale. E può capitare che il ricatto fisico – l’intimidazione, la pressione intollerabile, attuata con mezzi coercitivi che limitano la libertà e l’autonomia – si intrecci a quello ideologico o morale. È lecito pagare un riscatto per una persona cara quando so che, così facendo, alimento il mercato dei sequestri? È indispensabile sapere che non esistono soluzioni semplici né vie di uscita lineari. Ed è altrettanto indispensabile capire che non è possibile restare innocenti né scegliendo una strada né optando per quella in apparenza opposta. Bombardare Tripoli significa – anche provocare danni incalcolabili e causare vittime civili.
Non bombardare Tripoli significa – anche – non impedire (= consentire) che Muammar Gheddafi, porti a compimento il massacro degli oppositori. C’è una “terza soluzione”? Oggi non so, ieri certamente sì. Ma andava perseguita per tempo, molte settimane fa. Una soluzione che prevedesse il riconoscimento degli insorti, il sostegno alla loro mobilitazione, il ricorso a tutti gli strumenti di pressione nei confronti del regime, una intelligente politica delle sanzioni, un’opera di isolamento internazionale attraverso il coinvolgimento di paesi arabi e africani e – so di scandalizzare o di passare per ingenuo l’offerta di una via d’uscita tramite la concessione di un salvacondotto e la possibilità dell’esilio (ciò che non venne fatto e che forse si sarebbe potuto fare per Saddam Hussein). Di tutto questo, nulla è stato nemmeno tentato. Per più ragioni, e una riguarda direttamente l’Italia. Nel 2008 il nostro Paese ha firmato un Trattato di amicizia con la Libia, che traduceva il progetto iniziale del Governo Prodi in un dispositivo prevalentemente finalizzato a una politica di “contrasto all’immigrazione”. Sta qui l’origine del disastro.
Risarcimenti abnormi e cooperazione industriale, forniture d’armi e mercato dell’energia: come merce di scambio, il pattugliamento congiunto del Mediterraneo, i campi profughi in Libia, il blocco delle partenze dalle coste africane, la strage di migranti nel deserto. Tutto ciò senza che alla Libia venisse chiesto un solo atto di rico-
noscimento formale e sostanziale dei diritti universali della persona, della tutela dell’incolumità dei migranti e dei profughi, delle convenzioni internazionali a presidio della dignità umana. In assenza di tutto ciò l’Italia ha chiesto solo un’opera di polizia, esercitata sempre con rigidità e talvolta con efferatezza, “nella piena cooperazione” tra le forze di sicurezza di un regime dispotico e quelle di un sistema democratico.
Si trattava di un’operazione di facciata crollata dopo diciotto mesi e comunque resa vana dal fatto che i flussi di migranti si ingrossassero e scegliessero rotte diverse da quelle per Lampedusa. Ciò ha consentito al ministro Maroni di dichiarare “sbarchi zero”, senza indicare quanti, nel frattempo, fossero approdati in Calabria o in Puglia, e quanti fossero morti in mezzo al mare e nel deserto. È questo che evidentemente, ha impedito all’Italia di adottare quella “terza soluzione” prima indicata, e di svolgere quel ruolo quando sarebbe stato possibile esercitarlo. Ma oggi, nella situazione ormai precipitata, è ancora giusto invocare il ricorso esclusivamente a strumenti diversi da quelli militari? È ancora possibile evitare di rispondere con la forza alla forza? È attuabile una strategia interamente affidata a mezzi politici e diplomatici? A me non sembra più tempo. E, dunque, si impone quel principio fondamentale, così elementare e ragionevole e, insieme, così eticamente fondato, ancorché terribilmente doloroso, che è il “male minore”. Possiamo, sì, continuare a batterci perché politica e diplomazia prendano il posto delle armi, ma a patto di sapere che ogni secondo che passa aumenta la possibilità di Gheddafi di fare strage del suo popolo.
Si può dire: preferisco che la strage si compia, con le sue conseguenze, piuttosto che arrendermi alla guerra e a ciò che la guerra porta con sé. Nell’un caso come nell’altro, non avremo salvato l’anima e saremo corresponsabili, anche solo per impotenza o ignavia, di nuovi morti. Ma una scelta va fatta. E io scelgo il male minore.

L’Unità 22.03.11