ambiente, attualità

"Le lattughe di Cernobyl", di Guido Ceronetti

Chi ha ricordi ricorda. Fummo rassicurati subito. Il prof. Colombo che dirigeva l’Ente nucleare, dichiarò subito che l’Italia, certo per i suoi meriti angelici, non sarebbe stata toccata dalla nube radioattiva. Così annunciavano le testate. Poi sì, sarebbe stata toccata, ma appena con deflorazione evangelica, qualche minima ricaduta in Veneto, guardarsi dai funghi sarebbe stato uno scrupolo sufficiente.
La fortunata penisola fu invece trattata con rudezza dalla celebre nube, che generò leucemie e tumori e provocò nella gente una violenta rivolta contro il piano perfettamente delirante del prof. Felice Ippolito, che avrebbe disseminato centrali nucleari come gustose noccioline un po’ dovunque. (L’atomo, in verità, non fu mai popolare in Italia).

Le diete subirono variazioni travolgenti. Il nostro ministero di allora della Sanità dettò regole drastiche. Comparvero sui banchi dei piccoli e grandi mercati ortofrutticoli soltanto ortaggi cresciuti sottoterra, indubitabili: non vedevi che mucchi di carote, cipolle, patate, rape. Una barba! Ma lo spettro del reattore quattro di Cernobil era là, guatava ogni nostro movimento e boccone. Il Giappone ufficiale e quello macrobiotico proposero il consumo abbondante di alghe di un certo tipo (mi pare la più venduta fosse la Kombu), che quasi non trovavi più, e il riso biologico integrale. Correva questa leggenda, nel Sol Levante: che in un ospedale nei pressi di Hiroshima dove c’erano abbondanti scorte di riso, tamari (salsa di soia) e alghe, nonostante la fortissima contaminazione radioattiva, medici e infermieri che avevano cura di quei poveri appestati, furono protetti dalla dieta a lunghezza di giorni. Da noi, scomparsi latte fresco e latticini, rimasero in commercio soltanto formaggi di pasta dura, il Parmigiano-reggiano seguitò a regnare sulla tavola italiana. Svizzera e Francia invece non osarono frenare l’industria nazionale casearia e lasciarono i loro amati cittadini deliziarsi con celebrità formaggesche su cui la Nube aveva lacrimato come un’Addolorata.

A Torino, una signora molto vicina al proprietario di allora della casa dei Gelati Pepino, mi diceva molti anni dopo, anzi neppure tanti, che i soli gelati dove non era contenuta radioattività erano i Pepino, perché il latte di base proveniva tutto da pascoli garantiti, mentre su tutti gli altri non c’era da giurarci, e i peggiori erano i provenienti dall’Est, controllati allora alla sovietica, quantunque a Mosca ci fosse il buon Gorby con le sue ali tese. Il quale, del resto, lasciò i suoi piloti immolarsi eroi sorvolando a bassa quota il reattore per soffocarlo coi sacchetti di sabbia; uno solo di quei ragazzi sopravvisse, Anatolij, e dopo anni di cure incessanti Cernobil lo disfece come Fukushima disferà i volontari di terra e d’aria, autentici kamikaze («vento divino») che si stanno provando a spegnere il drago da vicino.

Il bisogno di eroi cresce a misura che crescono, si moltiplicano, s’ingrandiscono le catastrofi d’ambiente del pianeta.

Le lattughe e tutte le verdure verdi a foglia larga ci mancavano come ai detenuti l’amore, mentre i piselli surgelati sovrabbondavano. Altra leggenda consolatrice fu la banana, le si vendeva perfino marce. Autorevoli medici proclamavano Anticernobil questo meraviglioso ma non onnipotente frutto dei tristi tropici, che forse non colpì la nube. Credo le mangiassimo perfino marcette, per un riflesso di cultura arcaica, benemerita sempre, che nella curva banana annerita, impoverita di sostanza zuccherina, ritrovava l’archetipo della strega dai poteri magici, della sciamana curandera, capace di far vivere e morire.

Temevamo la pioggia, che si dava in fragorosi diluvi primaverili e di cumuli gravidi di Cernobil, temevamo ci bagnasse la capelluta, e ricomparvero le provvide galoches, in estinzione: separavano meglio il piede dall’asfalto e dal marciapiede, messaggi in codice di gocce dell’angelo radioattivoforo. Poi, appena sulla soglia di casa, via galoche le scarpe accanto alla porta, la pantofola a rassicurarci col suo tepore di sorella. I medici raccomandavano di non far toccare alle suole i pavimenti di casa, in specie tappeti e moquettes (che io eviterei sempre, detestandoli). Sconsigliavano inoltre pollini e pappe reali, per sospette provenienze dall’Est, ogni tipo di fungo, i tartufi, nei quali tuttora si riscopre il Cesio 37.

In pochi anni l’Europa dall’Atlantico agli Urali si era ricoperta di centrali, riempiendosi di scorie da scaricare possibilmente (anche criminalmente) altrove – tra la contrarietà isolata dei movimenti verdi, che mai riuscirono ad impedirne una.

Fui tuttavia sempre dalla loro parte, fuori da ogni contenuto politico; l’indifferenza ambientalista in genere degli scrittori e degli intellettuali italiani era però famosa.

Dell’atomo-colomba-bianca, delle centrali adulate come pulite e soprattutto pacifiche, non fui mai persuaso. Ormai sono parecchie centinaia (con una Italia che maledice il suo «essere rimasta indietro») e certamente non furono fatte senza motivi di profondità che non riguardano né risparmio né convenienza, e restano dovunque un mistero da indagare e un dramma escatologico. Resta un altro mistero la quantità impressionante di centrali fatte in Giappone (più di cinquanta dove ancora fa vittime il Dopo Nagasaki-Hiroshima). Disciplinati troppo, passivi troppo, uguali troppo, questi sconosciuti giapponesi, oggi attanagliati tra Fukushima e tsunami. Che vogliano, per la seconda volta, lanciare al mondo un avvertimento?

Quanti occhi aprirà il rogo appestato di Fukushima?

La Stampa 22.03.11