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«L'Italia dei nuovi notabili», di Massimo Gramellini

La maggioranza degli storici e dei commentatori ha celebrato i nostri 150 anni dibattendo unicamente intorno alle origini dello Stato: come se alla commemorazione del nonno i nipoti sfogliassero l’album fotografico del suo battesimo, disinteressandosi del seguito. Purtroppo figure gigantesche come Cavour e Garibaldi non hanno molto a che spartire con l’Italia del 2011. Mentre basta spostarsi all’epoca successiva, l’ultimo scorcio del Ottocento, per respirare subito un’aria più familiare. Valori smarriti, partiti ridotti a comitati d’affari, compravendita di parlamentari, corruzione, scandali, cricche, mazzette. L’Italia dei notabili, la battezzò Indro Montanelli.

Cessata la spinta ideale, la politica diventa una palude nella quale sguazzano coccodrilli di modesto spessore, ma dotati di un appetito mostruoso. I due partiti «forti» nati dal Risorgimento, la destra cavouriana e la sinistra garibaldina (e qui il parallelismo con la Dc e il Pci forgiati dalla Resistenza è abbastanza impressionante) lasciano il posto a un vuoto morale e a una casta di capibastone legati al territorio, ciascuno titolare di un proprio pacchetto di clienti e di voti. Sono questi uomini, mossi esclusivamente da interessi di piccolo cabotaggio contrabbandati per «spirito di servizio», a fare e disfare maggioranze e governi, inaugurando la pratica del trasformismo e utilizzando «la macchina del fango» per sbarazzarsi degli avversari.

Crispi viene estromesso dal collega Nicotera, che passa sotto banco a un giornale le prove della sua bigamia. Qualche anno dopo è Crispi che costringe alle dimissioni Giolitti con una serie di rivelazioni compromettenti sullo scandalo della Banca Romana. Scandalo da cui finirà triturato anche lui, quando salterà fuori che una delle sue numerose mogli ha uno scoperto milionario col medesimo istituto. E che dire del ministro degli Esteri Mancini, smanioso di invadere il Nord Africa per cercarvi «le chiavi del Mediterraneo», espressione vuota e perciò destinata a imperitura fortuna? Viene azzoppato da un gossip ottocentesco sulle sue avventure amorose, culminate nella strepitosa risposta del ministro alla moglie che lo ha sorpreso a letto con la cameriera: «Scusami, cara, al buio avevo creduto fossi tu». La cronaca rosa lascia presto il posto a quella nera e nel 1893 il marchese Notarbartolo è ucciso su un treno a coltellate per aver denunciato i maneggi di Palizzolo, deputato e compare dei «padrini», con il Banco di Sicilia: l’alba dello struscio fra «maffia» e politica.

Corsi e ricorsi, siamo tornati lì. Agli intrecci inconfessabili, ai voti comprati, alle carriere costruite sui ricatti e le raccomandazioni, alle cricche degli appalti pubblici e delle massonerie deviate, alle case regalate ai potenti a loro insaputa per ingraziarsene i favori. Una delle poche differenze fra l’Italia dei notabili e quella dei responsabili è che a quei tempi non esisteva la tv, per cui non si era costretti a vedere di continuo certe brutte facce, tastandone quotidianamente l’ignoranza, la volgarità e la precarietà della sintassi.

Come si esce da questo pantano? Allora il cambio di stagione coincise con l’irruzione nella vita pubblica delle masse popolari, cattolica e socialista, che peraltro produsse contraccolpi drammatici, sfociati nell’interventismo bellico e poi nel fascismo. Stavolta è lecito auspicarsi un passaggio più «soft». Ma sempre dal risveglio dei sudditi – cioè dalla loro trasformazione in cittadini – occorre partire. E se all’epoca dei notabili il riscatto degli italiani si realizzò con la conquista del diritto di voto, oggi passa inesorabilmente dalla sua riconquista. Infatti quel diritto inalienabile lo abbiamo svenduto da tempo, delegando a una casta senza ideali la gestione degli affari che ci riguardano e venendone giustamente ricompensati con una legge elettorale che ha tolto alle vittime persino la possibilità di scegliersi i propri carnefici.

da www.lastampa.it