attualità, politica italiana

«Sulla pelle di Lampedusa», di Federico Geremicca

Fotogrammi che fanno il giro del mondo. Immortalano centinaia di uomini accampati con tende e fuochi su una collina come fossero apaches; fermano l’immagine di decine e decine di ragazzini tunisini che dormono per terra avvolti in giacche a vento e teli.

Fotografano l’isola di Lampedusa ridotta a pattumiera, migliaia di buste di plastica portate via dal vento, puzza ed escrementi ovunque, l’odore acre della creolina nei luoghi pubblici trasformati in dormitori. Tv francesi, tedesche, americane, canadesi… I cameramen si fregano le mani: come per Napoli e la monnezza. Non è una gran figura, a volerla dire con qualche ottimismo. E nei tinelli e nei salotti di Lione o di Los Angeles qualcuno, certo, si starà chiedendo com’è possibile che un civilissimo Paese occidentale, la settima od ottava potenza del mondo, una comunità di sessanta milioni di persone, insomma, non riesca ad accogliere (in maniera cristiana, verrebbe da dire…) poche migliaia di migranti. Se lo chiedono in mezza Europa. E forse sarebbe ora di cominciare a chiederselo anche da noi.

Dopo settimane e settimane di fatica e di obbedienza, se lo è chiesto – per esempio – Dino De Rubeis, sindaco dell’isola. E si è risposto. «Contro di noi c’è una strategia malefica», dice alla fine di una burrascosa assemblea con le mamme di Lampedusa: che si conclude con la decisione di chiudere a tempo indeterminato tutte le scuole dell’isola. «La tragedia di Lampedusa – continua – più grande è e meglio è. Serve a chiedere i soldi all’Europa. E magari a prendere un poco di voti al Nord perché, potranno dire, vedete che i tunisini li teniamo tutti a Lampedusa e al Sud?».

Di fronte a quel che accade qui ormai da settimane – i grovigli umani, i ragazzini tunisini con gli occhi sbarrati, la sporcizia, i rischi di infezione – e considerato il Paese in cui questo accade, non ci sono che due possibilità: o quel Paese è in mano a un governo di uomini inetti, oppure a un governo di cinici politicanti. Il sindaco di Lampedusa opta per la seconda delle due possibilità. Ed è difficile dargli torto. La tesi è: c’è una drammatizzazione dell’emergenza, un tanto peggio tanto meglio dal quale trarre tragica forza nel contenzioso con l’Europa e magari anche qualche vantaggio interno, sfruttando le immagini infernali di Lampedusa per passare alla linea dura, rimpatri, respingimenti e indiscriminate dichiarazioni di clandestinità. Solo che questa «strategia malefica» del tanto peggio tanto meglio – difficile da contestare di fronte a quel che si vede qui – si gioca tutta intera sulla pelle di Lampedusa. Che ieri, infatti, ha vissuto tre rivolte. Quella del pane, quella delle mamme e quella dei ragazzini arrivati dalla Tunisia.

La prima è divampata alle due del pomeriggio, quando sulla banchina della stazione marittima è arrivato il camion con il cibo per i migranti: pareva uno dei mezzi della nettezza urbana e aveva due ore di ritardo. Momenti di tensione, cibo rifiutato, urla, centinaia di tunisini che vengono giù dalla collina su cui sono accampati. Tre ore prima era stata la volta delle mamme: se vogliono la tragedia allora noi di tragedie ne vogliamo due, e poi vediamo che succede. Non intendono più mandare i bambini a scuola per le condizioni igieniche dell’isola e perché hanno paura. Propongono: chiudiamo le scuole, drammatizziamo. Il sindaco accetta. E poco dopo, tocca ai ragazzini tunisini stipati nei tre stanzoni dei locali puzzolenti della riserva marina: rifiutano il cibo perché è indecente. Guardiamo in una delle buste: fagioli bolliti di un colore indefinibile. Uno dei ragazzini si taglia le vene dei polsi perché non vuole più stare qui: è soccorso e medicato.

Nei bar dell’isola le tv trasmettono le immagini dei ministri Maroni e Frattini volati in Tunisia per cercare di convincere le nuove autorità di quel Paese ad arginare le partenze via mare. Stringono un accordo, sperano che sia rispettato: ma non si capisce quanto ci credano. Il fatto, forse, è che non si può puntare sempre sulla politica del piattino in mano: chiedere all’Europa che gli immigrati siano equamente spartiti tra i Paesi membri, e sentirsi rispondere – ovviamente – che una cosa così non si è mai vista; chiedere ai tunisini – che hanno ben altri problemi, a cominciare dalla pressione alle frontiere di terra – di fermare le partenze, sentendosi rispondere forse, e sapendo che per le autorità di quel Paese più gente va via e meglio è. Bisognerebbe metterci del proprio. Come ha tentato di fare ieri la nave San Marco.

Tonnellate di acciaio arrivate alle nove della mattina per portar via 500 migranti: e rimaste lì, alla fonda, fino a sera (e i tunisini, naturalmente, sulla banchina prima al sole e poi al freddo). Dal Viminale non sapevano dirle verso quale porto fare rotta. Tutti i centri di accoglienza sarebbero pieni. Alle sette della sera, infine, l’ordine: imbarcateli e portateli a Taranto. Tutti in una tendopoli dalle parti di Manduria. Che non sarà la Sicilia, certo, ma sempre Sud è…

da www.lastampa.it