attualità, politica italiana

"La sindrome dell´assedio", di Ilvo Diamanti

Che nostalgia quei muri. Lungo i confini: a Est e a Sud. Separavano il bene dal male. Il giusto dall´ingiusto. Ci difendevano dal comunismo e dalla povertà. Il muro di Berlino: da quando è caduto, l´Europa si è allargata.La Jugoslavia è divenuta ex. Un collage di patrie inquiete. L´Albania: un nostro protettorato. La Romania, la Croazia, il Montenegro. Il mondo dell´Est è entrato, prepotentemente, a casa nostra.
Anche noi, con le nostre aziende, peraltro, ci siamo allargati ad Est. Ampie zone un tempo definite “Oltrecortina” si sono trasformate in province e regioni del nostro Nord Est.
Oggi, però, l´assenza di quel muro preoccupa e, anzi, spaventa.
Le nostre aziende si stanno ritirando dai Paesi dell´est Europa. Per andare ancora più in là, dove le porta l´interesse. (Il costo del lavoro, i contributi pubblici, i vantaggi fiscali…). Mentre da noi l´immigrazione cresce. Attirata dalle nostre imprese, dal nostro mercato del lavoro. Ma anche dal nostro stile di vita, sicuramente molto migliore del loro.
Decine, centinaia di migliaia di persone hanno attraversato i nostri confini – aperti. Non più come stranieri, abitanti di un mondo lontano e ostile, sotto il comando dell´Impero sovietico, ma da cittadini d´Europa. Questa Patria, un tempo tanto invocata, in Italia (nel passato recente, il Paese più europeista d´Europa). Mentre oggi è guardata con sospetto. Atteggiamento meritato, d´altronde, visto che l´Unione Europea appare un ossimoro. Una somma di interessi nazionali perlopiù in conflitto.
Così sale la nostalgia. Del muro e dei confini. Nostalgia. Del tempo in cui i romeni erano comunisti da liberare. Mentre ora sono diventati Rom di cui liberarsi.
Nostalgia. Del Muro che a Sud ci divideva dall´Altro Mondo. Il Terzo. Dall´Africa, dai Paesi in via di sviluppo. Dall´Islam. Perché il Mediterraneo, in fondo, tale appariva. Un Muro. Contrastava il flusso incessante di migranti, che, quando le condizioni atmosferiche lo permettevano, affrontavano il mare su imbarcazioni di fortuna. E di fortuna ce ne voleva tanta per riuscire ad arrivare, stipati su quelle barche.
Oggi anche quel muro è caduto. Al di là del Mediterraneo, che divide – e unisce – il nostro Sud e il Nord dell´Africa, le rivolte in Tunisia, in Egitto e in Libia hanno spinto migliaia di persone a fuggire. Inseguendo condizioni sicurezza e di vita migliori. Si dirigono verso di noi. Approdano nel posto più vicino. Lampedusa. Che è divenuta una sorta di prigione a cielo aperto. Dove tutti sono prigionieri: gli immigrati in fuga e i residenti. Tutti insieme, lì. Quasi a simboleggiare le macerie del muro che noi vorremmo ricostruire. Un nuovo muro fra noi e gli altri.
Oltre cinquemila immigrati, cinquemila persone in fuga. Lampedusa, per loro, è una via d´accesso, un passaggio. Per andare altrove. In Italia, in Europa. Ma noi li tratteniamo lì. In condizioni disumane. In ostaggio, insieme agli abitanti di Lampedusa. Noi e, insieme, gli europei. Solidali a parole. Europei a parole, ma tutti attenti all´interesse nazionale. E al consenso. Visto che l´immigrazione è una questione di consenso – e dissenso – politico, oltre che sociale. Fra le più importanti. Non solo in Italia. In Francia, ad esempio, dove Marine Le Pen e il Front National, anche per questo motivo, appaiono in grande crescita elettorale, secondo i sondaggi.
D´altronde, nella UE non si è mai riusciti a stabilire una legislazione e delle politiche comuni, in materia di immigrazione. Ci mancherebbe: ciascuno agisce per proprio conto, quando si tratta di affrontare temi politicamente sensibili.
Così, cinquemila immigrati, nella rappresentazione mediatica e nella propaganda politica, diventano l´avanguardia di una “invasione”. E vengono bloccati laggiù, a Lampedusa. In condizioni miserevoli. Esibiti dalle tivù di tutto il mondo. E, soprattutto, da quelle europee e anzitutto italiane. Così va in onda, in diretta, lo spettacolo dell´insicurezza e della paura. Punteggiato da scene di povertà e disperazione. Animato da parole – e proposte – ciniche e spietate. Due ministri offrono agli esuli 2.000 euro a ciascuno, in cambio del ritorno in Patria. In mezzo al dramma da cui sono fuggiti. Da cui, presumibilmente, fuggirebbero di nuovo, appena possibile.
Un altro ministro, invece, sostiene che li si debba semplicemente ri-cacciare. Ritenendo – o meglio: illudendosi – che, in questo modo, oltre alla pietà, si ri-caccerebbe in mare anche il problema. Si affogherebbe anche il nostro sentimento di vulnerabilità. Noi, che ci sentiamo assediati da ogni parte. Anche a Nord, dalla Francia. Il suo protagonismo in Libia, in patria, incontra il consenso della maggioranza dei cittadini (oltre i due terzi, secondo l´Ifop). Mentre (soprattutto, ma non solo) in Italia ha sollevato risentimento e sospetti.
Il capo del governo e i leader della maggioranza, in pubblico e ancor più in privato, accusano la Francia di agire per rubarci il petrolio. Per ridimensionare il nostro ruolo nel Mediterraneo. (Ma a quel ruolo, per la verità, abbiamo rinunciato già da tempo). I francesi complottano contro di noi, denunciano le prime pagine dei giornali di destra. (Anche se in Francia l´unico argomento italiano che faccia notizia, durante questa crisi, è – e resta – Berlusconi. Ma non certo per motivi politici e geopolitici.)
Noi, italiani, ci sentiamo orfani dei muri, che marcavano i confini e le distanze. E ci difendevano. Da Est e da Sud. Abbiamo nostalgia dell´Urss e di Gheddafi (il quale, peraltro, è ancora lì, asserragliato nel suo bunker). Ora che il mondo si è aperto e incombe su di noi, le politiche – e le parole – del governo cercano di ricostruire gli stessi muri. E altri ne erigono, a Nord. Per garantire la nostra sicurezza. Per difendere il benessere che abbiamo conquistato. D´altronde, gli esuli in fuga dal Nord Africa, diretti verso le nostre coste, sono giovani, spesso giovanissimi. Ci fanno scoprire vecchi. Vulnerabili. Poco tolleranti.
Lampedusa riflette e alimenta la nostra sindrome dell´assedio. L´Italia, tutta intera, vi si specchia. Si sente accerchiata. E diventa una grande Lampedusa.

La Repubblica 28.03.11