attualità, politica italiana

"Spettacolo al di sotto della decenza", di Luigi La Spina

Faceva impressione, ieri sera su tutti gli schermi delle tv italiane, vedere il ministro della Difesa urlare in aula e insultare il presidente della Camera per le contestazioni sul «processo breve» Un ministro del Paese più coinvolto nelle conseguenze delle rivoluzioni che sconvolgono l’altra sponda del nostro Mediterraneo. Una questione lontanissima dalle gravi preoccupazioni che assillano gli italiani in questo momento e che, tra l’altro, dovrebbero assillare anche i suoi pensieri e le sue azioni. Lo spettacolo si completava con il collega ministro degli Esteri che lo affiancava sul banco del governo, sbalordito e imbarazzato testimone di una scena impensabile e inaudita in qualsiasi Parlamento di una democrazia occidentale. Uno Stato che sta partecipando, in questi giorni, a una operazione militare di guerra, anche se vogliamo chiamarla in altro modo, e che deve affrontare un’emergenza umanitaria drammatica.

Così come faceva impressione vedere il presidente del Consiglio offrire agli abitanti di Lampedusa, comprensibilmente esasperati da una situazione sconvolgente, una escalation di promesse strabilianti, culminate con la candidatura al Nobel della pace e garantite da un impegno che, preso da Berlusconi, ha un valore assoluto: l’acquisto di una villa sull’isola. Perché, in quelle stesse ore, a Roma, i suoi deputati e il suo ministro della Giustizia preparavano un blitz procedurale per assicurare un cammino parlamentare, appunto, brevissimo a quel «processo breve». Una legge che, se fosse approvata in tempi rapidi, lo salverebbe da un’eventuale condanna al processo Mills.

Faceva pure impressione, sempre ieri sera, l’evidente difficoltà dell’altro partner di governo, quello determinante in questa fase della vita politica, la Lega. Da una parte, costretta a dimostrare di saper gestire, in prima persona col suo ministro Maroni, una situazione molto intricata e difficile, quella dell’immigrazione dai Paesi mediterranei, dove non bastano le sbrigative battute in dialetto di Bossi a risolvere problemi di portata epocale. Dall’altra, obbligata a sostenere Berlusconi nelle sue vicende processuali, con provvedimenti di legge che rischiano di incidere gravemente sui consensi di elettori molto sensibili al rischio di generalizzate clemenze giudiziarie. Due fronti che, con una coincidenza simbolica, vanno a colpire proprio un motivo fondante di quel partito, la tutela della sicurezza, scudo delle paure più profonde degli italiani.

Per completare lo scenario ieri spalancato davanti all’opinione pubblica nazionale, e ancor più internazionale, la visione di un Parlamento assediato da una contestazione accesissima, a cui, inspiegabilmente e singolarmente, è stato permesso di arrivare sulla soglia del portone. Testimonianza di un clima esasperato e di una spaccatura emotiva tra i cittadini italiani rischiosa, soprattutto in un momento in cui il nostro Paese deve superare prove molto ardue.

È vero, infatti, che l’Europa, sul problema degli immigrati maghrebini, pare sorda ai giustificati appelli alla solidarietà comunitaria che arrivano dalle nostre autorità di governo. Ed è anche vero che il modo con il quale i principali leader del mondo trattano i rappresentanti italiani ai vertici internazionali sembra oscillare tra la trascuratezza e il paternalismo. Proprio su una questione, quella della crisi libica, in cui il nostro Paese è il più coinvolto, sia per gli interessi economici e geopolitici, sia per i risvolti demografici, sia per le nostre antiche responsabilità storiche.

La forza negoziale dell’Italia, però, sarebbe ben diversa se la credibilità della nostra classe dirigente, in queste e in altre circostanze, non fosse molto indebolita da un costume politico così al di sotto dei minimi standard di decenza pubblica. Perché l’autorità nei confronti degli altri Paesi del mondo si conquista con l’autorevolezza raggiunta nel nostro.

La Stampa 31.03.11

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“E alla Camera risuonò il “vaffa” di Ignazio”, di FRANCESCO BEI

«Stai zitto». «Non ti devi permettere». «Ma vaffanculo!». Quella «piazza» che, secondo La Russa, non si sarebbe dovuta nemmeno avvicinare al portone di Montecitorio, alla fine è tracimata fin dentro l´aula. E a portarcela ieri sera è stato proprio il ministro della Difesa, trasformando per mezz´ora il Parlamento in una vucciria. Lo scambio di battute tra La Russa e Fini è durissimo, è evidente che travalica i confini della contingenza e si gonfia di un livore coltivato da mesi.

«Un ministro che manda affanculo il presidente della Camera – sibila furibondo Claudio Scajola – non si era mai visto». L´attacco di La Russa è premeditato. Esce fuori da Montecitorio, affrontando i manifestanti insieme a Daniela Santanché, beccandosi insulti e un lancio di monetine. Non ci voleva molto a capire che sarebbe stata una provocazione, visto che da un´ora lì fuori 200 persone stanno gridando a squarciagola «vergogna», «mafiosi», «corrotti». Insomma, la Russa sosterrà di essere uscito dal portone solo «perché avevo un appuntamento lì vicino», a molti invece la sua appare come una mossa studiata. Gli ex An in Transatlantico si passano la voce: «Tutti dentro, Ignazio farà un casino». È chiaro a tutti che sta per succedere qualcosa, La Russa è incontenibile. Ghedini capisce al volo che può andare in fumo il tentativo di portare a casa la legge pro-Berlusconi e sprona Angelino Alfano e Fabrizio Cicchitto. Entrambi scongiurano La Russa di lasciar perdere: «Ignazio calmati, così puoi mettere a rischio il provvedimento». La Russa non li ascolta nemmeno. Solo la Prestigiacomo lo giustifica: «Lasciatelo fare, si deve sfogare». Si sfogherà, eccome.
Presa finalmente la parola, La Russa racconta di essere stato aggredito fuori da Montecitorio. «Ho riconosciuto una persona, era l´organizzatore dei fischi a Silvio Berlusconi il 17 marzo. La stessa persona, vestita nella stessa maniera». Insomma, quanto accaduto, sarebbe «il frutto di una contestazione premeditata alla maggioranza, agli organi costituzionali, alla libertà del Parlamento». Poi, rivolto ai banchi dell´opposizione, che già inizia a rumoreggiare: «Voi siete complici se reagite così. Siete violenti più di loro».
Dario Franceschini gli risponde, si chiede come mai i manifestanti non siano stati tenuti come al solito dietro le transenne e «come mai, casualmente, La Russa, che ha un volto noto, non ha mancato di uscire dal portone principale per essere vittima di aggressione… Se avvengono episodi di violenza si condannano ma… «.
L´orologio segna le 18.30, in aula scoppia l´inferno. La Russa applaude ironicamente il capogruppo Pd: «Bravo, ma bravo». Dai banchi del Pd e dell´Idv gli gridano di tutto: «Fascista! Dimettiti! Coglione!». La Russa chiama i suoi a rispondere, mentre i forzisti e i leghisti restano attoniti. Arriva l´incidente più grave, quello con Fini. «Onorevole ministro, la prego di avere un atteggiamento rispettoso», dice il presidente con la campanella in mano. La Russa si mette l´indice davanti alla bocca, come a dire: stai zitto. Poi si gira e («rivolto alla presidenza», annotano diligentemente i quattro scrupolosi stenografi d´aula) fa il gesto di Chinaglia a Valcareggi, dicendo «Ma vaffanculo!». Prima di sospendere la seduta, Fini replica: «Non le consento di insultare la presidenza». Spento il microfono, gli urla in faccia: «Ma come ti permetti!». Il presidente della Camera è furibondo, quando incrocia i deputati del Pdl quasi li travolge e lancia il suo anatema: «Quello è da curare, curatelo!». Nel Pdl c´è chi sostiene di aver sentito dire a Fini anche altro contro l´ex ministro. Ma sono in molti a far riferimento esplicitamente a uno stato alterato di La Russa e all´uso di stupefacenti. Il Pd Sandro Gozi: «Aveva sbagliato la dose». Il finiano Granata: «Ha cambiato pusher». Pier Luigi Mantini, Udc, invoca addirittura «un test antidroga». Mentre il terzo polo ne invoca le dimissioni, La Russa in serata telefona a Fini per scusarsi: «Ce l´avevo con Franceschini». Ma il presidente della Camera gli risponde gelido: «Non è stata un´offesa alla persona ma all´istituzione. La gravità di quanto accaduto sarà quindi valutata dagli organismi di Montecitorio».

La Repubblica 31.03.11