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"Il governo ha reintegrato i fondi per lo spettacolo. Ma per i teatri è sempre notte.", di Michele Smargiassi

Vesti la giubba e la faccia infarina. Col cuore che lacrima, si va in scena. Davanti a duemiladue poltroncine rosse si prova Pagliacci di Leoncavallo. Vestiti in borghese i coristi, i cantanti, i figuranti sembrano ragazzi in gita nel teatro d´opera più moderno del Paese dell´opera. Invece sono i lavoratori a orario dimezzato di una fabbrica in crisi. Lavorano meno, guadagnano meno, e il ricavato, cinque milioni di euro in due anni, lo regalano al Carlo Felice, il loro teatro, il teatro dei genovesi, perché non lo si debba chiamare, fra qualche tempo, Carlo Infelice, e piangerne la chiusura. «Siamo i maggiori sponsor privati del teatro», mastica amaro Giulio Luzi, delegato sindacale della Cgil del teatro. È vero: gli imprenditori privati, che il sindaco Marta Vincenzi ha invitato ad aprire i portafogli in nome dell´orgoglio civico, hanno finora raggranellato un milione 400 mila euro, «arriveremo a due, ma valgono doppio, in tempi di crisi», rivendica il presidente di Confindustria Giovanni Calvini che guida la colletta.
Ma tutti questi sacrifici saranno inutili se lo Stato si ritira. Se non mantiene i patti. La scorsa estate il soprintendente Giovanni Pacor, fresco di nomina dopo un tempestoso commissariamento, si trovò a fare i conti con un buco di circa tre milioni per finire la stagione, e con un cassetto pieno di promesse. Qui non è più questione di reintegro del Fus, il fondo unico dello spettacolo, che ha fatto il pieno al distributore di benzina. Senza il reintegro del Fus il futuro sarebbe stato ancora più nero. Ma perché possa quadrare il “piano industriale” che dovrebbe riportare il bilancio in pareggio entro due anni mancano ancora i soldi extra promessi dall´ex ministro Bondi: un milione sul 2010 e tre sul 2011.
Il ministro è cambiato e i fondi non sono arrivati: il successore manterrà? Fus o non Fus, il Carlo Felice è l´esempio lampante di come, sotto la doccia scozzese dei finanziamenti che vanno e vengono, la cultura italiana sia sotto l´incubo stabile della fame di fondi e delle casse vuote.
«È Achille e la tartaruga»¸ scuote la testa l´assessore alla Cultura Andrea Ranieri, «e viene il sospetto che ci sia un progetto, che qualcuno abbia deciso che sopravvivano solo due o tre enti lirici, gli altri s´arrangino o crepino di fame». Se dovesse accadere, Genova avrà perso un teatro, i lavoratori avranno fatto sacrifici inutili e gli imprenditori buttato via i soldi. Calvini lo dice diplomatico ma chiaro: «I privati non sono il surrogato dell´impegno pubblico, chi si sforza di autofinanziarsi deve essere premiato», tradotto: se lo Stato non crede nel futuro del Carlo Felice, perché dovremmo crederci noi?
Però si va in scena. «Sul palco l´affanno lo senti», ti confida Giuseppe Francese, violista. «Provare un´opera in tre settimane anziché quattro, e poi stare fermi un mese, peggiora la qualità e l´amalgama di un´orchestra». C´è nervosismo, malumore, divisione fra i 292 lavoratori del teatro. Il Carlo Felice è il primo e unico ente lirico che abbia mai applicato a musicisti e cantanti la formula sindacale dei “contratti di solidarietà” pensati per gli operai. Con tanti malumori. Alla consultazione, i contratti sono passati solo per un paio di voti. Lavoratori spaccati, anche questo non migliora il clima sul palco. Eppure la formula non è massacrante per i dipendenti: a conti fatti, con i reintegri dell´Inps, lo stipendio cala solo di un 15-20%. Mentre è pesantissima per il teatro: si lavora il 40% in meno, cioè si produce il 40% in meno: in questa stagione sono scomparse tre produzioni su nove, due balletti su quattro.
«Non siamo una fabbrica d´auto dove, se non hai ordini, blocchi per un po´ una linea: la cultura non può andare in cassa integrazione», scandisce Nicola Lo Gerfo del Fials. «Era meglio regalare al teatro gli aumenti dell´integrativo, ma continuare a lavorare a tempo pieno: un teatro che non produce, muore». Ma se ogni recita è in perdita, lavorare di più vuol dire anche perdere di più. E nelle stagioni passate spesso gli incassi hanno coperto meno della metà del costo di ogni messinscena, col record negativo dello Chénier del 2009, 911 mila euro di costi e 359 mila di biglietti. Solo Elisir, allestito da Pacor nella stagione d´emergenza di fine 2010 in stile opera-studio (un cast di giovani costa in un mese come una sola serata di una superstar dell´ugola) hanno distillato qualche utile.
E i creditori bussano alla porta. Quasi ogni sera, mentre il sipario si alzava, la Finanza ha fatto una visita al botteghino e si è portata via l´incasso. Sequestri per pagare le ingiunzioni: di lavoratori che aspettano lo stipendio arretrato, di fornitori che avanzano fatture, e anche dell´ex soprintendente Di Benedetto che vuole la sua liquidazione. Ma al nono piano dell´imponente cubo disegnato da Aldo Rossi, Pacor, “il Sovr” come lo chiamano i suoi dipendenti, mantiene la calma: «All´Opera di Atene avevo le molotov sotto le finestre, ne ho viste di peggio…». Non vuole passare alla storia come il sovrintendente che chiuse una reggia per bancarotta. «Faremo di tutto per trovare denaro». Streaming delle rappresentazioni a pagamento via Internet, foyer affittato come locale per feste, pannelli fotovoltaici sul tetto, catering per matrimoni sulla terrazza, pacchetti integrati per i crocieristi, ogni idea anche irrituale che porti un euro è benedetta. Ma se lo Stato si ritira? Nel momento più buio dei tagli “il Sovr” aveva pensato a un gesto clamoroso: scendere in piazza De Ferrari con un cappello da clown, in groppa all´asinello vivo preteso da Zeffirelli come attrezzo di scena dei Pagliacci, e arringare da lì il popolo genovese. «Tanti lo avrebbero chiuso, questo teatro. Io lo farò sopravvivere, perché la gente all´opera ci vuole ancora venire».
Ma è l´ora dell´ansia per il teatro e chi lo ama. I melomani: preoccupatissimi, ma ancor di più, addolorati. Sandro Bonioli, animatore dell´Associazione Teatro Carlo Felice: «Questo teatro seppe risorgere dalle bombe degli Alleati, c´era solo il palco intatto e si andava in scena con la platea sotto le stelle», sospira, «sarebbe un´assurdità vederlo morire per disinteresse. Contando i commissari, abbiamo avuto otto sovrintendenti in vent´anni, non è così che si custodisce un gioiello». E se fosse un gioiello troppo pesante per la corona della regina del mare? Un teatro inaugurato giusti giusti vent´anni fa, tempi più allegri di questi, non è oggi sovradimensionato per la città? Quando attori e lavoratori degli altri teatri genovesi (vestiti di viola, colore proibito su qualsiasi palco del pianeta, per sfidare la “Quaresima definitiva”) hanno invaso il municipio durante la celebrazione dell´Unità d´Italia, ce l´avevano anche con il Carlo Felice, un colosso che brucia 45 mila euro ogni mattina che il custode apre il portone, che ingoia denaro pubblico a milionate (il Comune ha appena ripianato la voragine della fallita cassa previdenziale dei dipendenti), mentre per loro restano briciole, o nulla. Il sindaco Vincenzi li ha applauditi: «evitiamo le guerre tra poveri».
Ma anche un melomane convinto come Sergio Cofferati, genovese d´adozione, mette in guardia contro lo “squilibrio”: «Chiudere un teatro è un dramma, ma la crisi vale per tutti, e salvare il Carlo Felice costa tanto perché ha un´eredità pesante». Insomma non può fare la parte del leone chi ha più debiti. Maturati quando era convinzione comune che «tanto poi arriva un commissario e ripiana», denuncia Luzi, il sindacalista Cgil, «e purtroppo c´è ancora chi spera nei miracoli». «È chiaro che da questa crisi non si esce tornando ai vecchi vizi», ammette il sindaco, «a un mercato falsato da costi insostenibili, cachet debordanti, spese eccessive. Faremo di tutto per costringere il governo a rispettare le sue promesse, ma anche tra chi invoca il ritorno dei soldi si nascondono i nemici della cultura». Sul grande palco, tra i più tecnologici del mondo, ci si affretta per finire la prova rispettando l´orario ridotto. Il tenore ripassa la parte: «Eppur è d´uopo, sforzati! La gente paga, e rider vuole qua».

La Repubblica 04.04.11