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"L'Aquila 2 anni dopo è quasi immobile: macerie nel centro, in crisi persino le imprese dell'edilizia", di Paolo Bricco

«Ascoltami, Anto’. Se tu fai mettere due euro per visitare il santuario, fanno 40mila d’incasso all’anno. Solo dal Canada, ne arrivano mille. Quelli sono molto devoti», spiega al suo commensale il prete mentre beve un bicchiere di vino rosso. All’altro tavolo, un quarantenne sbrana il piatto di maccheroni alla pecorara e dice a due commensali che annuiscono in silenzio: «Qui non c’è niente da fare. L’ultima fattura ho impiegato sei mesi a incassarla». All’Aquila, a due anni dal terremoto, è così. Tutti parlano di soldi. Soldi che dovrebbero esserci, che chissà forse ci sono, che mannaggia non ci sono. Il 6 aprile del 2009 il sisma ha distrutto la città. Da allora L’Aquila è sotto una cappa di vetro e di polvere. Immobile. Ferma. Un’immagine antitetica rispetto all’attivismo febbrile dei mesi successivi alla tragedia, quando l’adrenalina della prima ricostruzione evitò agli aquilani di affrontare le rigidità dell’inverno nelle tendopoli.

La crisi economica internazionale non ha aiutato la città a risollevarsi. Ma ci sono cose che c’entrano poco con i mercati internazionali. I fondi erogati per ricostruire L’Aquila, per esempio. «Rappresentano una specie di giallo contabile», dice Luca Bianchi, vicedirettore dello Svimez, che su richiesta del Sole 24 Ore si è esercitato in un calcolo che oggi definisce impossibile. «L’unico elemento sicuro – continua Bianchi – sono gli 1,2 miliardi stanziati sull’emergenza dal Governo, a cui vanno aggiunti i 494 milioni messi a disposizione dall’Unione Europea».

Ci sarebbe poi un’altra cifra compresa fra i 2 e i 4 miliardi in carico al Fas, il fondo che contiene le risorse per il Sud. «Sono miliardi teorici – rileva Bianchi – di cui non si riesce ad appurare il reale utilizzo. Colpisce l’assenza di una cabina di regia in grado di monitorare quante risorse siano davvero finite all’Aquila per la ricostruzione».

Invece, le famiglie dei bambini dell’asilo di suor Daniela sanno bene quanti soldi mancano a casa. «Fino a febbraio abbiamo fatto pagare 90 euro sia per la retta che per la mensa, adesso da marzo siamo tornati a 160, perché i nostri conti non reggevano. Chi non può permetterselo, però, non paga», dice suor Daniela, doppia laurea in teologia e in economia, membro del direttivo di Confindustria L’Aquila.

Suor Daniela, che è responsabile del personale dell’Istituto missionario della dottrina cristiana («Siamo nate nel 1890 qui in città, il terremoto ha distrutto tutto, ma non ce ne siamo andate»), educa nella scuola costruita dalla Protezione civile i bambini degli aquilani e ascolta le preoccupazioni di mamme e papà: «Le tasse vecchie e nuove, più i mutui da pagare per le case che ora sono cumuli di pietre».

C’è il problema dei soldi. E c’è il problema dell’anima della comunità. «Sa qual è il vero dolore, anche più forte dell’affanno dei conti? È che abbiamo capito che, nel centro storico, nessuno tornerà più. Le 19 piccole città edificate dalla Protezione civile intorno all’Aquila dovevano essere transitorie. Ma, ormai, è chiaro che sono definitive. E, quella, non è vita: senza amici, gli anziani lontano dagli ospedali, per gli altri viaggi su viaggi per andare a prendere e riportare i ragazzi a scuola».

Soprattutto per gli anziani non è facile. Annalisa Di Stefano, una commercialista che con altre nove professioniste aquilane sta anche organizzando uno sportello gratuito per aiutare le donne ad aprire nuove attività, sta preparando un servizio di trasporti per quelli che, “dispersi” nelle new town satelliti, vogliono fare ginnastica e stare insieme: «Mia mamma Maria, a 73 anni, resta sempre chiusa in casa. Così non va bene».

I giovani e i vecchi, con il caldo estivo e il freddo invernale, passano ore sulle macchine e sui pulmini. «Intanto – dice suor Daniela – nel centro storico la ricostruzione è ferma». Fra i cumuli delle macerie, alcune carcasse d’auto e le fasciature metalliche che impediscono agli edifici di crollare, il silenzio qui è da camposanto.

Al 54 di via Sallustio, uno stabile giallo ha il tetto ripiegato che sembra sul punto di cadere. Raffaele Colapietra, a 80 anni, ha la tristezza e l’intelligenza del professor Terremoto di Pirandello. È uno storico che ha insegnato all’Università di Salerno. Impermeabile grigio, prima di allontanarsi verso la casa danneggiata che non ha voluto abbandonare, esprime il suo scetticismo: «Ha sbagliato la comunità. Dovevamo partecipare di più alle scelte».

Questo senso di sradicamento dal proprio destino, all’Aquila, è assai diffuso. Il terremoto. Il Governo a prendere le decisioni. Silvio e Obama. La macchina della Protezione civile («È andata via il 31 gennaio del 2010, da allora non c’è stato che il vuoto», dice suor Daniela). La politica locale che litiga.

Quasi si autoincolpa Rita Innocenzi, a trent’anni capo degli edili della Cgil, un’altra donna lucida alle prese con l’enigma aquilano: «Avremmo dovuto avere più forza. Eravamo come annichiliti dal terremoto. Si è capito subito che le strutture provvisorie sarebbero diventate permanenti. Non abbiamo avuto, come sindacati e come persone comuni, l’energia per proporre qualcosa di alternativo. Ora che il grosso dei lavori intorno alla città è stato effettuato, dovrebbero iniziare a ricostruire il centro. Ma con che soldi? Ormai molte attività commerciali si sono trasferite fuori».

Rita la sindacalista non l’ammetterà mai. In fondo, però, il simbolo di tutto questo è la sede della Cgil, vicino al centro commerciale Gli Aquilotti. Un investimento da 1,2 milioni. Soldi veri, messi a disposizione anche dal sindacato nazionale. Difficile pensare che la Cgil tornerà nella vecchia sede del centro.

Poi, ci sono i soldi che potrebbero esserci ma che, invece, sono congelati. La Futuris Aquilana, una società controllata da investitori milanesi e varesini, ha pronto il progetto di una centrale a biomasse, che ottiene energia dal legno. Quindici addetti diretti, nell’area industriale di Bazzano. Un centinaio nell’intera filiera per la coltivazione dei pioppi. Due milioni già investiti. Trenta milioni in prospettiva.

«Non abbiamo ricevuto un soldo del post terremoto – spiega Aldo Mazzadi – Abbiamo ottenuto tutte le autorizzazioni pubbliche. All’improvviso, hanno preso forma timori sull’inquinamento che causerebbe la centrale, che invece usa le tecnologie più verdi al mondo. Con tanto di tre ricorsi fatti al Tar dai comitati a noi contrari».

La sindrome “nimby” riguarda la mentalità collettiva di tutto il paese. «Forse – riflette il presidente dell’Unione industriali dell’Aquila, Fabio Spinosa Pingue – qui come nell’intera provincia questa sindrome ha una particolare presa per la storia del tessuto produttivo, fatto di economia pubblica e di piccole attività commerciali, con scarso spazio per gli imprenditori veri e propri».

In ogni caso, qui c’è poco da potersi permettere sindromi da province ricche. Secondo l’Inps, nei primi due mesi dell’anno la Cig ordinaria ha avuto un aumento tendenziale del 485% (a fronte di un +19% regionale). Quella in deroga, concentrata sempre nell’industria, è esplosa del 2.500%, due volte e mezza quella abruzzese. Dunque, lo sbandamento che nei primi mesi post-sisma pareva naturalmente focalizzato sui negozi e le attività commerciali del centro storico si è propagato all’intero tessuto produttivo.

Interessante il flusso di nuove sofferenze in rapporto ai prestiti, ricavabili analizzando i dati della Banca d’Italia. All’Aquila, prima del terremoto, questo indicatore era pari all’1,37%, mentre adesso è al 4,07 per cento. Una situazione molto dura, se si pensa che nello stesso periodo a livello italiano questo indicatore è passato dall’1,31 all’1,92 per cento.

Analizzando i soldi prestati alle imprese dalle banche, si fa un’altra scoperta: nei due anni segnati dal terremoto, le imprese italiane specializzate nelle costruzioni hanno visto i loro prestiti salire del 35,4%, quelle aquilane del 23 per cento. «Non mi stupisce. Le imprese aquilane sono sempre state poco patrimonializzate. Dunque, non in grado di partecipare a un simile business», nota Annalisa Di Stefano.

Il risultato è che perfino dell’economia della disgrazia qui è rimasto poco. Anche in termini di redditi: alla cassa edile, che rileva i dati sulle aziende con sede nella sola provincia, la massa salari è aumentata dai 49 milioni del pre-sisma ai 69 milioni del post-sisma (+40%) mentre in realtà i lavoratori sono più che raddoppiati passando da 6.355 a 12.741. «Le aziende sono di fuori e molti operai arrivano dalle altre regioni, per poi andarsene», conferma la sindacalista Innocenzi. In tanti arrivano dalla Campania, dalla Puglia, dalla Basilicata. Da quel Sud che, poco alla volta, sta inghiottendo L’Aquila. Nel 1995 il Pil pro capite era di 14.462 euro, un quarto in meno del Centro Nord ma un quinto in più rispetto al Mezzogiorno. Ora la distanza dal Centro Nord è salita al 30%, mentre quella dal Sud si è accorciata a poco più del 10 per cento.
«Meridionalizzazione? Non so. Quella non è solo una questione di soldi. Certo, però, gli effetti del sisma potrebbero rendere duratura e profonda questa tendenza di lungo periodo», riflette suor Daniela. Che, poi, quasi rivolge una preghiera laica: «Vi prego, non dite che qui all’Aquila ogni cosa è risolta. Abbiamo fatto un gemellaggio con la scuola elementare Cocchetti di Milano. Sono venuti a trovarci. Una mamma si è stupita. Pensava che qui tutto fosse a posto. Non è così».

Il Sole 24 Ore 04.04.11

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“Terremoto, i ritardi e le speranze Ancora 37 mila in case provvisorie”, di Paolo Foschi Virginia Piccolillo

«Ma perché gli aquilani si lamentano?» . Se lo chiedono in molti, a volte con aria infastidita, ricordando il «miracolo» delle casette costruite a tempi record e fornite, con tanto di champagne in frigo, ai terremotati. Il problema è che c’è una ferita che ancora sanguina, da quella notte tra il 5 e il 6 aprile del 2009, quando alle 3.32 del mattino, un boato agghiacciò l’anima e poi tutto venne giù assieme ai muri: gli affetti, le case, le storie, il futuro. È che il centro, cuore pulsante sociale, culturale, economico dell’Aquila, ma anche dei piccoli paesini attorno, è rimasto com’era. A parte i puntellamenti di legno che sono costati moltissimo, anche per case che forse dovranno essere demolite, e che ora, dopo due anni di pioggia e neve e assenza di lavori, sono già destinati alla sostituzione. Per la gioia delle imprese appaltanti e la rabbia dei terremotati. Fuori dalla zona rossa, in periferia, i cantieri aperti si vedono. Sono quelli delle case meno danneggiate. Si è partiti da quelle. E già c’è una pioggia di esposti. Imprese che, magari con l’assenso degli inquilini, gonfiano i costi dei progetti con lavori non necessari. O lavori fatturati molto ma compiuti male. «Devono venire a controllare. Non l’hanno fatto all’inizio e c’è chi se ne è approfittato. Almeno lo facessero ora. Perché qui sono milioni di euro, mica uno scherzo» protesta Luciano, autore di un esposto. «A casa mia c’era solo una piccola crepa, ma la volevano far passare per gravemente danneggiata» . A due anni di distanza, sono ancora 37.733 (15 mila in meno rispetto al 2010) le persone assistite. Poco meno di 23mila risiedono in alloggi Map (le famose casette), in 19 new town; circa 13 mila sono beneficiarie del contributo di autonoma sistemazione (200 euro a persona ogni mese) e 1.328 sono ancora in strutture ricettive abruzzesi e nelle caserme. In questi giorni sono tutti in fermento. Si attende l’ordinanza. L’ennesima che dovrebbe finalmente chiarire tutti i dubbi su come debbano essere i progetti da presentare all’approvazione, per aver poi i rimborsi. Da due anni la burocrazia ha infierito sugli aquilani. E se in Giappone sono bastati 6 giorni per costruire un’autostrada qui ci sono voluti in media 8-10 mesi, con punte di un anno e due mesi, per avere il via libera a ricostruire. Con l’ordinanza i 15mila della fascia E (i proprietari delle case più danneggiate) potranno presentare le richieste. Ma ad attenderle nell’ufficio comunale che deve valutare la correttezza formale delle pratiche ci sono un impiegato, spesso fuori per incombenze, e una ragazza con contratto a tempo determinato sempre in scadenza. Peggio ancora nell’ufficio ricavato nella caserma della Finanza. Un corridoio angusto con la parete fasciata da migliaia di progetti accatastati. Per fortuna è di vetro. Così gli impiegati possono leggere dal cortile i numeri delle pratiche. La cartolina che ritrae la ricostruzione che non decolla arriva da Cagnano Amiterno, appena 15 km dal «cantiere più grande d’Europa» . Qui sorge lo storico cementificio Sacci: dovrebbe essere un fermento di produzione. Invece dal prossimo gennaio almeno 12 operai saranno messi in mobilità. Perché — ha spiegato l’azienda nella lunga trattativa con i sindacati— «non c’è lavoro a sufficienza» . Da queste parti la disoccupazione è balzata dal 7,5%di prima del sisma all’attuale 11%, dato che però, come spiega Umberto Trasatti, segretario provinciale della Cgil, «non comprende i la- voratori in cassa integrazione, mobilità o comunque che usufruiscono di ammortizzatori sociali» . Altre migliaia di persone rimaste senza lavoro. Il prodotto interno lordo è fermo: bloccato sulla crescita zero. «Altro che ripresa» , incalza la Cgil, «e dal governo tante promesse, ma poche azioni concrete» . E per una volta anche gli industriali sono in sintonia con il sindacato» . «Nell’emergenza — dice Antonio Cappelli, direttore di Confindustria— sono state fatte cose straordinarie. Poi però tutto si è fermato. Aver dato un tetto alla gente realizzando una periferia diffusa non vuol dire rilanciare l’economia. La ricostruzione “pesante”non è neanche partita» . Oltre 1.200 piccole aziende e imprese artigianali del centro storico hanno chiuso: rappresentavano una delle ricchezze svanite della città. «Il sistema università, fra affitti di fuorisede, consumi, servizi, generava un flusso finanziario compreso fra i 220 e i 230 milioni di euro all’anno. Adesso si è quasi azzerato» , aggiunge Antonio Cappelli. Gli iscritti sono scesi da 27 mila a poco più di 21 mila, nonostante l’azzeramento delle tasse universitarie. Sono venuti a mancare proprio i fuorisede che erano quelli che movimentavano più denaro.

Il Corriere della Sera 04.04.11