attualità, politica italiana

"Non servono colpi di testa", di Gian Enrico Rusconi

Bastano 22 mila profughi indesiderati per rovinare nel giro di quarantotto ore il lavoro di decenni di costruzione europea? La frase di Roberto Maroni che si chiede «se ha senso rimanere nell’Unione europea. Meglio soli che male accompagnati» – è molto grave. Sproporzionata. In realtà rivela di colpo l’incultura europea di parte della nostra classe politica. Governo compreso.

Aspettiamo adesso una chiara responsabile dichiarazione del presidente del Consiglio. Quella del ministro dell’Interno infatti non è la solita «battuta leghista» da non prendere troppo sul serio.

Ma intanto – comunque vada – da oggi l’Europa non sarà più quella di prima. E non solo per colpa degli italiani che erano attesi al varco della crisi finanziaria (con la litania sempre ripetuta che dopo l’Irlanda, la Grecia, il Portogallo sarebbe stata la volta dell’Italia). Gli italiani invece hanno turbato l’Europa con una decisione apparentemente meno drammatica, che di colpo però ha mostrato le nuove ansie profonde dell’Europa dei governi. Si ha l’impressione infatti che crei più preoccupazione la prospettiva di dover forzatamente accogliere profughi indesiderati che non accollarsi i costi supplementari del salvataggio finanziario greco o portoghese. Se è così l’Europa è davvero cambiata.

Non è chiaro se nella rigida reazione dei ministri europei che rivendicano la corretta interpretazione delle regole Schengen di contro all’iniziativa italiana, ci sia soltanto l’esigenza che «le regole vanno rispettate». O non ci sia anche il sospetto che il ministro italiano abbia tentato di forzare la mano creando un fatto compiuto. Confermando ancora una volta che gli italiani sono sempre un po’ disinvolti quando si tratta di interpretare le norme. Soprattutto in presenza di un governo che non brilla certo per entusiasmo europeo. Per tacere d’altro. È antipatico scrivere queste cose, ma sarebbe ipocrita tacerle.

Se è così, si rivela un altro tassello della mutazione dello spirito europeo. Questa volta imputabile anche alla situazione italiana. La straordinaria storia del ruolo determinante e insostituibile dell’Italia nella costruzione europea – non solo dai mitici inizi degli Anni Cinquanta ma per tutti i decenni successivi – sembra archeologia. Peggio, rischia di essere retorica – dopo le infrazioni continue, le inadempienze, le sciatterie italiane nei rapporti con Bruxelles. L’Europa si è ridotta ad un fastidioso controllore, ad un deposito di risorse da strappare con complicate pratiche burocratiche. In ogni caso un’istituzione da trattare in modo strumentale – do ut des. Maroni ha ricordato polemicamente che l’Italia ha mostrato la sua solidarietà verso la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo. «Ma a noi, in questa situazione di grave emergenza, è stato detto “cara Italia, sono affari tuoi e devi fare da sola”. L’Unione europea è un’istituzione che si attiva subito solo per salvare banche e per dichiarare guerre, ma quando si tratta di esprimere solidarietà a un Paese come l’Italia, si nasconde».

I concetti-chiave del ragionamento sono «emergenza e solidarietà». La controversia sta proprio nella loro interpretazione. Ciò che per il governo italiano è «emergenza e necessità di solidarietà» non lo è per i partner europei. Invece proprio da questi valori – riferiti ovviamente ad altri contenuti – è nata e si è sviluppata l’Europa. Questo ciclo si sta chiudendo? Mi chiedo che cosa pensa davvero la grande maggioranza della popolazione italiana, francese o tedesca. Al momento sembra silenziosamente schierata dietro i rispettivi governi. Mi chiedo ad esempio che cosa pensano i Verdi tedeschi che insieme ad un’Europa denuclearizzata ed ecologica, la vogliono più solidale anche nei confronti dei migranti. Si accontenteranno delle cifre che il governo di Berlino elenca per mostrare la sua generosità (in un sottinteso confronto polemico con l’Italia)? Sarà importante vedere come l’opinione pubblica europea reagirà nei prossimi giorni se il governo italiano decidesse qualche colpo di testa. O viceversa se l’Europa posta di fronte ad una situazione di grave disagio di un suo membro importante mutasse atteggiamento.

Per il momento dunque la parola e l’iniziativa rimangono ai governi. Innanzitutto al governo italiano, che si trova davanti ad una prova molto seria del suo europeismo. Se è convinto d’avere buone ragioni, si ricordi che le virtù delle vecchie classi politiche europee di fronte alle difficoltà che sembravano insormontabili, erano la ferma pazienza e la ricerca ostinata dell’accordo. Non la ricerca del consenso elettorale domestico ad ogni costo. Tanto meno i ricatti di rompere con i partner. Non ci sarebbe stata l’Europa.

La Stampa 12.04.11

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“Propaganda a uso interno”, di MARCELLO SORGI

Stretto tra la Lega e il compito sempre più difficile di ministro dell’Interno alle prese con l’emergenza immigrati, Maroni ieri ha commentato duramente la decisione uscita da Bruxelles di lasciare all’Italia il compito di risolvere i suoi problemi. Il più esplicito è stato il tedesco Hans-Peter Friedrich, per il quale 23 mila clandestini da allocare in un Paese da 60 milioni di abitanti come il nostro dovrebbero tranquillamente essere gestibili. Ci sono state ondate peggiori, che ad esempio Germania o Belgio hanno superato senza gradi difficoltà.

Poteva Maroni aspettarsi qualcosa di diverso? Onestamente no. La posizione europea era stata anticipata dalla commissaria Malmström e il ministro leghista, invece di sbattere la porta, avrebbe potuto approfondire l’aspetto dei profughi, che cominciano ad arrivare dalla Libia, e rispetto ai quali l’Europa impegnata nella missione militare non può certo essere sorda. Riepilogando: se davvero Maroni ha ottenuto la scorsa settimana dalla Tunisia la possibilità di rimpatriare i migranti arrivati a Lampedusa dopo il 5 aprile, pur con i limiti (sessanta al giorno) previsti dall’accordo, i due voli quotidiani che sabato Berlusconi ha garantito agli isolani per alleggerire l’invasione dovrebbero risultare sufficienti ad arginare l’emergenza. Ci saranno ovviamente ostacoli, dovuti alla debolezza endemica del governo tunisino, e probabilmente il rimpatrio continuerà a subire intoppi. Ma se nel frattempo le operazioni congiunte di pattugliamento delle coste africane funzioneranno, la situazione, lungi dall’essere risolta, dovrebbe essere tenuta sotto controllo. Perché allora Berlusconi sabato e ieri Maroni sono tornati ad accusare l’Europa di indifferenza e addirittura a minacciare un’uscita dall’Unione, pur sapendo che per molti versi è impossibile? La spiegazione più semplice è che premier e ministro dell’Interno tengano presente i famosi cinque punti percentuali che secondo i sondaggisti berlusconiani l’emergenza immigrati potrebbe costare al centrodestra nelle prossime elezioni amministrative. Di qui il ricorso alla propaganda, anche a costo di deteriorare i rapporti con il Quirinale, preoccupato per la piega che stanno prendendo le cose, e l’indicazione di un capro espiatorio nell’Europa, che molti degli elettori del Pdl e leghisti consideravano già nemica.

La Stampa 12.04.11

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“Il tempo dei profeti”, di Barbara Spinelli

Il Presidente Napolitano, che quando parla d’Europa usa veder lontano e ha sguardo profetico, ha fatto capire nel giorni scorsi quel che più le manca, oggi: il senso dell’emergenza, quando una crisi vasta s’abbatte su di essa non occasionalmente ma durevolmente; l’incapacità di cogliere queste occasioni per fare passi avanti nell’Unione anziché perdersi in «ritorsioni, dispetti, divisioni, separazioni.

Son settimane che ci si sta disperdendo così, attorno all´arrivo in Italia di immigrati dal Sud del Mediterraneo. Numericamente l´afflusso è ben minore di quello conosciuto dagli europei nelle guerre balcaniche, ma i tempi sono cambiati. Lo sconquasso economico li ha resi più fragili, impauriti, rancorosi verso le istituzioni comunitarie e le sue leggi. Durante il conflitto in Kosovo la Germania accolse oltre 500mila profughi, e nessuno accusò l´Europa o si sentì solo come si sente Roma. Nessuno disse, come Berlusconi sabato a Lampedusa: «Se non fosse possibile arrivare a una visione comune, meglio dividersi». O come Maroni, ieri dopo il vertice europeo dei ministri dell´Interno che ha isolato l´Italia: «Mi chiedo se ha senso rimanere nell´Unione: meglio soli che male accompagnati». La sordità alle parole di Napolitano è totale.
La democrazia stessa, che contraddistingue gli Stati europei e spinge i governi a preoccuparsi più dell´applauso immediato che della politica più saggia, si trasforma da farmaco in veleno. Di qui la sensazione che l´Unione non sia all´altezza: che viva le onde migratorie come emergenza temporanea, non come profonda mutazione. Governi e classi dirigenti sono schiavi del consenso democratico anziché esserne padroni e pedagoghi con visioni lunghe. Non a caso abbiamo parlato di spirito profetico a proposito di Napolitano. È la schiavitù del consenso a secernere dispetti, rancori, furberie. Tra le furberie che ci hanno isolato c´è la protezione temporanea eccezionale che il nostro governo ha concesso a 23.000 immigrati. La protezione è prevista dal Trattato di Schengen, ma solo per profughi scampati a guerre e persecuzioni: non vale per i tunisini, come ci hanno ricordato ieri la Commissione e gli Stati alleati. Non è violando le regole che l´Italia suscita solidarietà. Può solo acutizzare le diffidenze: un altro veleno che mina l´Unione.
Per questo vale la pena soffermarsi sul significato, in politica, dello spirito profetico. Vuol dire guardare a distanza, intuire le future insidie del presente, ma innanzitutto comporta un´operazione verità: è dire le cose come stanno, non come ce le raccontiamo e le raccontiamo per turlupinare, istupidire, e inacidire gli elettori. Di questo non è capace Berlusconi ma neanche gli altri Stati e le istituzioni europee: i primi perché sempre alle prese con scadenze elettorali, le seconde perché intimidite dalle resistenze nazionali. La lentezza con cui si risponde alle rivoluzioni arabe non è la causa ma l´effetto di questi mali.
La prima verità non detta è quasi banale, e concerne l´intervento in Libia e il nostro voler pesare sui presenti sconvolgimenti arabi e musulmani. Condotta con l´intento di apparire attivi, la guerra sta confermando il contrario: una grande immobilità e vuoto di idee. È un attivarsi magari sensato all´inizio, ma che mai ha calcolato le conseguenze (compresa un´eventuale vittoria di Gheddafi) sui paesi arabi-africani e sui nostri. Fra le conseguenze c´è l´esodo di popoli. Un esodo da assumere, se davvero vogliamo esserci in quel che lì si sta facendo. Invece siamo entrati in guerra senza pensarci, né prepararci.
La seconda verità, non meno cruciale, riguarda l´Europa e i suoi Stati. L´occultamento è in questo caso massiccio, ed è il motivo per cui il capro espiatorio della crisi migratoria non è l´Italia come gridano i nostri ministri ma – se non si inizia a parlar chiaro – l´Unione stessa. L´evidenza negata è che da quando vige il Trattato di Lisbona, molte cose sono cambiate nell´Unione. Le politiche di immigrazione erano in gran parte nazionali, prima del Trattato. Ora sono di competenza comunitaria, e la sovranità è passata all´Unione in quanto tale. Questo anche se agli Stati vengono lasciati, ambiguamente, ampli spazi di manovra, in particolare sul «volume degli ingressi da paesi terzi».
Risultato: l´Unione, anche perché guidata a Bruxelles da un Presidente debole, prono agli Stati, non sa che fare della propria sovranità. Non ha una politica verso i paesi arabi, di cooperazione e sviluppo. Tuttora non ha norme chiare sull´asilo, sull´integrazione dei migranti, né possiede il corpo comune di polizia di frontiera che aveva promesso. Ma soprattutto, non ha le risorse per tale politica perché gli Stati gliele negano, riducendo la sovranità delegata a una fodera senza spada. Per questo alcuni spiriti preveggenti (l´ex ministro socialista Vauzelle, il presidente del consiglio italiano del Movimento europeo Virgilio Dastoli) propongono una cooperazione euro-araba gestita da un´Autorità stile Ceca (la prima Comunità del carbone e dell´acciaio). Come allora viviamo una Grande Trasformazione, e Monnet resta un lume: «Gli uomini sono necessari al cambiamento, le istituzioni servono a farlo vivere».
Se il Trattato di Lisbona significasse qualcosa, non dovrebbero essere Berlusconi e Frattini a negoziare con Tunisia o Egitto, con Lega araba o Unione africana. Dovrebbero essere il commissario all´immigrazione Cecilia Malmström e il rappresentante della politica estera Catherine Ashton. Resta che per negoziare ci vogliono progetti, iniziative: e questi mancano perché mancano risorse comuni. La condotta dei governi europei è schizoide, e tanto più menzognera: gli Stati hanno avuto la preveggenza di delegare all´Europa una parte consistente di sovranità, su immigrazione e altre politiche, ma fanno finta di non averlo fatto, e ora accusano l´Europa come se gli attori del Mediterraneo fossero ancora Stati-nazione autosufficienti.
La terza operazione-verità, fondamentale, ha come oggetto l´immigrazione e il multiculturalismo. È forse il terreno dove il mentire è più diffuso, tra i governanti, essendo legato alla questione della democrazia, del consenso, della mancata pedagogia, degli annunci diseducativi. Risale all´ottobre scorso la dichiarazione di Angela Merkel, secondo cui il multiculturalismo ha fatto fallimento. Poco dopo, il 5 febbraio in una conferenza a Monaco sulla sicurezza, il premier britannico Cameron ha decretato la sconfitta di trent´anni di dottrina multiculturale. Il fatto è che il multiculturalismo non è una dottrina, un´opinione. È un mero dato di fatto: in nazioni da tempo multietniche come Francia Inghilterra o Germania, e adesso anche in Italia e nei paesi scandinavi. L´operazione verità non consiste nel proclamare fallito il multiculturalismo: se un dato di fatto esiste, fallisce solo se se estirpi o assimili forzatamente i diversi. Se fossero veritieri, i governi dovrebbero dire: il multiculturalismo c´è già, solo che noi – Stati sovrani per finta – non abbiamo saputo né sappiamo governarlo.
Dire la verità sull´immigrazione è essenziale per l´Europa perché solo in tal modo essa può osare e fare piani sul futuro. Urge cominciare a dire quanti immigrati saranno necessari nei prossimi 20 anni, e quali risorse dovranno esser mobilitate: sia per mitigare gli arrivi cooperando con i paesi africani o arabi, sia edificando politiche di inclusione per gli immigrati economici e per i profughi (la frontiera spesso è labile: la povertà inflitta è una forma di guerra).
Tutto questo costerà soldi, immaginazione, pensiero durevole. Comporterà, non per ultimo, un ripensamento della democrazia. Ci sono cose che non si possono fare perché maturano nei tempi lunghi e l´elettorato capisce solo i risultati immediati, spiega l´economista Raghuram Rajan in un articolo magistrale sulle crisi del debito (Project Syndacate, 9 aprile 2011). Il bisogno di immigrati che avremo fra qualche decennio in un´Europa che invecchia è, paradossalmente, quello che dà forza ai nazional-populisti: in Italia, Francia, Belgio, Olanda, Ungheria, Svezia, Finlandia. Il dilemma delle democrazie è questo, oggi. Esso costringe governanti e governati a fare quel che non vogliono: smettere l´inganno delle sovranità nazionali, guardare alto e lontano, insomma pensare. E far politica, ma con lo spirito profetico che vede la possibile rovina (il «passo indietro» paventato da Napolitano) e la via d´uscita non meno possibile, se è vero che il futuro non cessa d´essere aperto.

La Repubblica 12.04.11