scuola | formazione

"Perchè gli insegnanti tornano a fare paura", di Stefano Bartezzaghi e Mariapia Veladiano

L´ultimo caso è quello sui libri di testo “troppo partigiani”. Ma gli attacchi all´insegnamento tolgono autonomia e centralità al sistema educativo. La campagna di primavera contro la scuola italiana ha un bersaglio principale: l’insegnamento e i professori. Dall’attacco all’educazione pubblica accusata di “inculcare nei ragazzi dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai propri figli” fino all’ultima proposta dei deputati Pdl che invocano una Commissione parlamentare che valuti l’imparzialità dei testi scolastici adottati perché molti, oggi, “plagiano i giovani” è evidente che sono gli insegnanti a fare paura. E che in questo modo si cerca di spezzare quella preziosa alleanza tra docenti, famiglie e ragazzi che spesso ha fatto delle aule scolastiche una sorta di laboratorio delle differenze culturali. Così colpire la figura dell’insegnante vuol dire, paradossalmente, enfatizzare il suo ruolo di solitario artefice della cultura, dall’altro, implicitamente, isolarlo sotto la lente di un’osservazione sociale e politica minuta, moltiplicata, asfissiante. Uno sguardo che non è complice e collaborativo, ma indagatore e giudice.

Ma quella era appunto tv, e non della migliore.
Non stiamo parlando di un carrozzone parastatale, di un ente inutile. Stiamo parlando della scuola, la principale agenzia culturale della Nazione. Il suo compito è fondamentale: fornire a ogni cittadino l´attrezzatura per intendere, comprendere ed elaborare personalmente tutto quanto gli verrà detto, o già gli è stato detto altrove (in famiglia, o anche nei libri di testo). La scuola non insegna giudizi: insegna a giudicare.
Senza l´autonomia da qualsiasi ordine superiore, l´insegnamento diventa quello che la destra mostra di credere sia già: una forma laica (troppo laica) di catechismo. La cultura, però, non è una dottrina: la minaccia che porta è casomai nella sua efficacia di antidoto antidottrinario. Tutti gli intellettuali, comunque votino, lo sanno: infatti gli intellettuali di destra si tengono lontani da questa questione, in cui sono sempre e soltanto i politici ad accanirsi.
Da quando, era il 2000, il presidente della Regione Lazio Francesco Storace inaugurò la polemica sui libri scolastici «troppo marxisti», l´idea (molto sovietica essa stessa) di una «Commissione» che valuti l´idoneità dei testi è ritornata, per esempio in dichiarazioni di Maurizio Gasparri. Quel che rende più serio e preoccupante il suo attuale rilancio è che avviene a poco più di un mese dalla polemica contro «la scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare princìpi che sono il contrario di quelli dei genitori» (Berlusconi, 28/2/2011; corsivo nostro). Data la pregnanza strategica e comunicativa di certi palleggi, non pare trascurabile la circostanza per cui il tema è stato ora sollevato da due collaudate componenti dell´inner circle berlusconiano. Prima da Gabriella Carlucci, che è membro della Commissione Cultura e Istruzione della Camera («Testi politicamente orientati, finalizzati a plagiare le nuove generazioni»), poi da Mariastella Gelmini, la ministra competente, che lo ha ripreso il giorno stesso («Il problema esiste»). Lo schema deputato-ministro ha già preannunciato diverse altre campagne, specialmente nel campo della Giustizia.
Si configura, insomma, un salto di qualità. Il problema non è il prevalere di un argomento storico sull´altro, con dosaggi (per esempio tra foibe e Lager) ritoccati a ogni cambiamento di maggioranza, almeno sino a quando, in questo Paese, le maggioranze cambieranno. Il problema è l´idea stessa del dosaggio: di poterne imporre uno, o anche solo di discuterlo.
Provenendo poi non da estremità propagandistiche e pirotecniche ma dall´interno delle tecnostrutture politiche impegnate nella legislazione e nell´amministrazione si può immaginare quanto maggiore effetto facciano simili affermazioni sugli interessati. Nuove prospettive si aprono a quegli studenti e a quei genitori che usano accogliere le meritate insufficienze con lo spirito di miglioramento recentemente dimostrato in altro campo da Zlatan Ibrahimovic. Non l´ha detto anche il Governo e il Parlamento, che non è giusto studiare su testi che elogiano la Resistenza o la presidenza di Oscar Luigi Scalfaro? Non è stato lo stesso Presidente del Consiglio a suggerire alla famiglia di correggere la scuola, ai genitori di controllare che i «princìpi» inculcati dai professori non siano diversi dai propri?
Per rottamare la scuola come agenzia culturale basta mortificarne l´autonomia, magari dichiarando l´intento di restaurarla. Se guardiamo all´insegnamento come a una tecnica per imprimere un calco solido in una materia duttile, e così formarla (questo il significato originario del termine «inculcare»), distruggiamo il significato vero, e prezioso, della relazione di insegnamento. Sarebbe come pensare di ridurre l´eros allo stupro, la comunicazione alla propaganda, il governo al comando.

La Repubblica 14.04.11

******

“Noi, insegnanti sotto esame”, di Mariapia Veladiano*

Le aule devono restare un laboratorio delle differenze dove si può discutere di tutto perché i ragazzi lo chiedono. Il vero rischio è di rompere l´alleanza tra le famiglie, la società e i docenti con un clima da guerra civile dove l´educazione non conta più. Inculcatori, fannulloni, partigiani. Nell´ultimo decennio l´insegnante è diventato il bersaglio di una coerente operazione di demolizione del riconoscimento sociale che lo ha accompagnato a lungo nel secolo scorso: accusato di esercitare un part-time di fatto; di fare il doppiolavoro attraverso la libera professione; di evadere (l´insegnante!) le tasse con le ripetizioni. E colpito anche in ciò che in Italia, purtroppo, garantisce sopra ogni cosa il prestigio sociale: il reddito, mortificato nei penosissimi “gradoni” e in regresso vertiginoso rispetto a vent´anni fa. E ancora, nel suo ruolo di grande inculcatore, oggi infine contrapposto frontalmente alle famiglia. Ma si può lavorare così, sotto assedio?
Adoperarsi sistematicamente per fare saltare l´alleanza fra il docente, la società e la famiglia è insensato. Vuol dire, paradossalmente, enfatizzare il suo ruolo di solitario artefice della cultura, dall´altro, implicitamente, isolarlo sotto la lente di un´osservazione sociale e politica minuta, moltiplicata, asfissiante. Uno sguardo che non è complice e collaborativo, ma indagatore e giudice.
Succede che quelli che hanno paura dei professori e dei maestri non riescono a immaginarli diversi da se stessi e quindi li vedono al servizio di un´ideologia che immaginano compattamente opposta e ostile, diversa ma nello stesso modo illiberale, li percepiscono militanti a oltranza, comunque nemici, come loro si sentono tristemente nemici.
Non è così e non lo sanno solo gli insegnanti ma anche le famiglie, per ora.
Chi ha paura degli insegnanti non sa cosa succede davvero a scuola. E cioè che le idee sono meravigliosamente differenti e “tante”, portate dai ragazzi che arrivano in classe con i volantini sulle foibe o sulla Shoah, consegnati la mattina da qualcuno, sulla strada di scuola, e chiedono se quel che è scritto è vero, e portano gli articoli di giornale e le discussioni fatte in famiglia, vogliono capire se è vero che l´Unità d´Italia è una buona cosa, e parlano e si confrontano.
E ancora: tutto questo sta dentro a una cultura che è immensamente più larga della sua connotazione politica: è capacità di dirsi, di riconoscerci diversi, di essere creativi, di capire e non giudicare, di difenderci dagli abusi, di non essere schiavi della banalità e del vuoto dei giorni.
La scuola come laboratorio di differenze anche di pensiero è oggi ciò che permette di disinnescare la guerra delle contrapposizioni che paralizza il vivere civile.
Questa cultura vive della libertà di parola: si deve poter dire e leggere tutto anche e soprattutto a scuola, perché la verità non è una frase scritta su un libro, ma un processo continuo di ricerca e di aggiornamento paziente fatto insieme anche a chi, e cioè gli studenti, più liberi di noi, ci regala finalmente lo sguardo nuovo sui fatti. E ci si trova, e sarebbe incontro interessante da raccontare, a difendere in qualità di responsabile della biblioteca scolastica, la presenza sugli scaffali di un libro molto contestato da alcuni nostri studenti: Il libro nero del comunismo. I libri vanno letti e discussi, non rimossi, abbiamo risposto. Si comincia con il bruciare i libri, abbiamo raccontato, e si arriva agli uomini. E il libro è ancora lì.
Pensiamoci davvero: si può far cultura nella posizione di chi è sotto esame per un libro adottato, per una parola detta?
Chi ha paura della libertà della cultura ha paura della libertà.

*L´autrice è un insegnante e ha scritto La vita accanto, Einaudi Stile libero)

La Repubblica 14.04.11