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"C’è il piano, le riforme dove sono?", di Pier Paolo Baretta

C’è il piano, le riforme dove sono?
Dopo la maratona del processo breve arriva in parlamento la manovra economica. Le nuove regole della governance europea, in vigore da quest’anno – il semestre europeo – obbligano i governi a presentare entro aprile (sulla base delle indicazioni contenute in un documento: l’analisi annuale della crescita, inviato dalla Ue a fine gennaio) il Piano nazionale delle riforme, che deve contenere le linee di politica economica dei singoli stati membri. Già la terminologia utilizzata: “crescita” e “riforme” indica chiaramente il salto di qualità richiesto.
Soffocata dalle devianti priorità della maggioranza e dai ritardi del ministero dell’economia, che solo tre giorni fa ha portato il Pnr in consiglio dei ministri, questa importante discussione parlamentare si concluderà nel giro di una settimana. È un peccato, perché questo appuntamento, che sostituisce il vecchio Dpef, costituisce il cuore della strategia economica del nostro paese. Le indicazioni della Ue sono chiare: risanare la finanza pubblica e accelerare la crescita. Sono due facce dello stesso problema, non scindibili tra loro. L’Italia a che punto è? E sta facendo le scelte giuste? A sole 24 ore dal varo del Pnr i dati sulla inflazione record e sulla crisi dei consumi ci confermano le difficoltà nelle quali si muove il nostro paese. Che senso ha continuare a sottovalutare la crisi, eluderla, addolcire la pillola, come continua a fare il governo italiano? L’ammissione della crisi, dopo tre anni di illusione ottica, c’è; ma viene subito, nei documenti preparati da Tremonti, esorcizzata con la esaltazione delle scelte fatte (in verità, più annunciate che realizzate), mentre scarse sono le nuove opzioni strategiche.
Clamoroso, in tal senso è il capitolo energia. Mentre il Pnr, preparato nell’autunno scorso, affidava tutta la crescita alla scelta nucleare; ora, a seguito dei noti problemi in Giappone, che hanno portato, giustamente, il governo a sospendere il piano, l’opzione nucleare è scomparsa (e, forse, ben più che per un anno!), ma non è sostituita da un piano energetico alternativo, o, quantomeno, provvisorio, in grado di fronteggiare i fabbisogni. Sicché, se, fino a poche settimane fa, senza il nucleare non era possibile far crescere l’economia italiana, adesso sembra che essa possa svilupparsi addirittura senza energia.
Un ruolo fondamentale viene assegnato alla riforma delle pensioni.
Con l’aggancio dell’età pensionabile all’attesa di vita si ritarderà automaticamente l’uscita dal lavoro. L’effetto è, certamente, un significativo contenimento degli squilibri finanziari, ma resta del tutto irrisolta la sostenibilità sociale, a causa di un mercato del lavoro, soprattutto giovanile e femminile, che non consente l’accumulo di contributi sufficienti ad una pensione decente.
La riforma delle pensioni, dunque, è incompleta, ma il governo ignora questo versante.
La competitività è sostanzialmente affidata alle politiche salariali di aggancio alla produttività e di moderazione.
Sappiamo bene l’importanza macroeconomica della contrattazione, ma, francamente, ci sembra esagerato affidare solo a queste la soluzione dei problemi, tanto più in assenza di una esplicita scelta partecipativa di relazioni.
Anzi, invece di puntare decisamente ad applicare l’articolo 46 della Costituzione, il governo insiste, pericolosamente, nel diversivo della modifica del 41, in totale controtendenza rispetto alla vera natura della sfida competitiva globale. La produttività, inoltre, è anche il risultato di innovazione tecnologica ed impiantistica; di ricerca; di formazione. E la competitività risente anche di politiche commerciali internazionali robuste.
Su tutto ciò il Pnr è debole e giustifica il risveglio imprenditoriale sull’abbandono da parte del governo; il quale, al massimo, stimola l’azione altrui, ma non esplicita la propria.
E se si parla, perché obbligati dall’Europa, di liberalizzazione dei mercati, non si entra nel merito delle scelte da compiere, manifestando una eccessiva timidezza; peraltro comprensibile in chi ha ancora in mente l’Iri, che fu grande cosa, ma che non rappresenta ormai il futuro strategico per una moderna politica industriale. Sintomatico di questo approccio è la completa assenza di una vera riforma della pubblica amministrazione.
Il fallimento sostanziale del metodo Brunetta non è sostituito da alcunché di realmente significativo.
Insomma né Obama né Cameron. Sicché, l’esito probabile di questa occasione persa è che la risalita dal 120% del debito su Pil sia più ardua di quanto venga presentata e una manovra ci vorrà e cadrà, all’improvviso, sulle spalle dei cittadini. Ma Tremonti non la prevede, anzi la nasconde, forse perché spera o teme che, con questi chiari di luna, a farla potrebbe essere un prossimo governo, magari di diverso colore. E la ripresa, se ci sarà, sarà merito dei meccanismi spontanei dei mercati, degli imprenditori e dei lavoratori. Ma proprio per questa assenza di una politica pubblica di rigore e di crescita, di una guida coraggiosa ed efficiente, la ripresa italiana sarà meno incisiva di quel che potrebbe essere e di quello di cui ha bisogno l’Italia. Anche per questo, la lettura del Pnr è deludente e preoccupante ed aggiunge alla crisi economica la conferma di una grave crisi politica e di governo dalla quale è urgente uscirne.

da Europa Quotidiano 16.04.11