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"Non ci sono più morti bianche", di Luciano Gallino

Una sentenza che è un pesante rimprovero al legislativo e all’esecutivo, oltre che ai padroni: più rispetto per il lavoro. La sentenza a carico dei dirigenti della ThyssenKrupp è molto dura. Su un punto fondamentale, quello di giudicare gli investimenti in tema di sicurezza consapevolmente non effettuati come prova di omicidio volontario da parte dell´amministratore delegato, la Corte ha accolto in pieno le richieste dell´accusa.

Come si aspettavano familiari e compagni delle vittime. Condannando la massima autorità dell´impresa al massimo della pena proposta dai Pm, sedici anni, e cinque dirigenti a pene che vanno da dieci anni – un anno in più rispetto alla richiesta – a tredici e mezzo, la sentenza riafferma con estrema forza un principio cruciale: di lavoro non si può, non si deve morire. Per cui ogni dirigente o imprenditore che non si occupa e preoccupa a sufficienza della sicurezza dei dipendenti sui luoghi di lavoro incorre in una colpa grave. Anche quando non abbia contribuito direttamente all´incidente che ha ucciso qualcuno, ma in qualche modo abbia accettato che esso succedesse come effetto eventuale del suo comportamento. Come decidere di non predisporre adeguate misure di sicurezza in un impianto che di lì a qualche tempo si dovrebbe chiudere o trasferire, perché in fondo esse sarebbero, nella ratio della contabilità aziendale cui un dirigente ritiene di doversi attenere, un inutile spreco. Anche se, per evitare quello spreco, finisce che ci vanno di mezzo vite umane.

La contabilità fondata sull´idea del “non è mai successo, perché dovrebbe accadere adesso?” è molto diffusa nelle imprese di ogni dimensione. Essa contribuisce a provocare oltre mille morti l´anno, decine di migliaia di infortuni invalidanti, nonché gran numero di malattie professionali che rattristano e accorciano la vita. La sentenza ThyssenKrupp è un grosso aiuto per combattere tale cultura. Essa fa severamente presente a dirigenti e imprenditori che se quello che non sarebbe dovuto succedere poi accade davvero, perché loro non hanno preso le dovute misure precauzionali, d´ora innanzi rischiano molto.

Una pena di tal gravità non era mai stata avanzata nelle numerose cause derivanti da incidenti sul lavoro che si sono susseguite negli scorsi decenni. Poiché gravissime erano le colpe degli imputati, si può essere soddisfatti perché giustizia è stata fatta, anche se essa non riduce né l´entità della tragedia né il dolore delle famiglie. Ma v´è un aspetto di questa sentenza che va al di là del senso di restituzione di qualcosa che era dovuto alle vittime, ai loro compagni, ai familiari. Negli ultimi decenni il mondo del lavoro ha pagato un prezzo elevatissimo in termini di compressione dei salari, peggioramento delle condizioni di lavoro, erosione dei diritti acquisiti, oltre che di vittime di incidenti e malattie professionali che la legge sulla sicurezza nei posti di lavoro dovrebbe limitare, se negli ultimi anni non fosse stata indebolita in vari modi dal legislatore. Questa sentenza – che arriva una volta, ma può essere una volta determinante; e verte su un caso specifico, che può però diventare generale – afferma che tutto ciò non è giusto. E che tutti i suoi elementi si tengono, per cui se si attenta a uno si compromettono anche gli altri. Da ultimo è il lavoro a creare benessere per tutti. E´ la base su cui si regge sia la ricchezza privata che quella pubblica. Merita un ampio riconoscimento sociale – lo dice perfino la Costituzione. Perciò né il lavoro né il lavoratore dovrebbero essere trattati come una merce che si usa se serve, si butta da parte se non serve, si cerca di pagare il meno possibile, e non importa poi troppo se chi presta il lavoro ci rimette la vita perché l´impresa, in nome della globalizzazione e del mondo che è cambiato, deve anzitutto far quadrare il bilancio. Dopo la sentenza di Torino, un simile modo di ragionare dovrebbe ridurre un po´ la sua iniqua presa, nel sistema economico non meno che in politica.

La Repubblica 16.04.11

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“Il lavoro non è solo profitto in fabbrica niente sarà come prima”. Il segretario Cgil Camusso: sentenza storica per la sicurezza, di Roberto Mania

È una decisione giusta: per la prima volta un dirigente viene condannato per omicidio volontario.
C´è in Italia una deriva culturale che porta a sostenere che nelle aziende si possa fare a meno dei diritti. «Questa sentenza dice una cosa precisa: la vita di un lavoratore non si può trasformare in profitto. Non so se sia una decisione storica, so che è la prima volta che un amministratore delegato viene condannato per omicidio volontario. Non era mai successo». Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, misura le parole di fronte alla sentenza della Corte d´Assise di Torino. Riflette su come la tragedia alla Thyssen abbia inciso sulla coscienza di tutta la società italiana, sulle resistenze che ancora ci sono di fronte al tema della sicurezza sui posti di lavoro, su come la tendenza ad abbassare il valore del lavoro possa condurre anche a consumare drammi come quello di due anni fa nello stabilimento siderurgico torinese.
Cosa ha provato quando ha saputo della condanna?
«La prima sensazione è stata positiva, per quanto si possa dire davanti a quella che è stata una vera strage. Ma, d´altra parte, la disattenzione alla sicurezza dei lavoratori in un impianto siderurgico non può che essere colpevole. Ricordo che subito dopo la tragedia, molti lavoratori denunciarono i tanti segnali di pericolo che c´erano stati dentro la fabbrica. E come l´azienda, avendo deciso di chiudere l´impianto, continuasse a produrre senza i necessari interventi sulla sicurezza. Ricordo, addirittura, il tentativo di fare ricadere le responsabilità sui lavoratori».
Cosa significa condannare un capo azienda per omicidio volontario?
«Sia chiaro, non ho nulla di personale, ma credo che sia una decisione giusta. Viene respinta l´idea che per conseguire il profitto si possano sacrificare le condizioni di sicurezza dei lavoratori».
Pensa che questa sia un´idea diffusa in Italia?
«C´è una tendenza secondo la quale bisogna togliere i controlli, ridurre le procedure burocratiche, deregolare. La verità che afferma la sentenza è che la responsabilità della sicurezza dei lavoratori è dell´impresa».
Definirebbe storica questa sentenza?
«Non lo so. Dico che è una sentenza molto importante: non si può scherzare con la vita di chi lavora».
Quasi un riscatto del lavoro, per quanto attraverso una vicenda drammatica?
«Sì. Un riscatto molto doloroso. Ma può essere d´aiuto per ribadire che non può esserci un profitto a prescindere».
Sta dicendo che nel nostro sistema imprenditoriale ci sia questa cultura?
«Io ho visto un governo molto impegnato ad alleggerire la legislazione sulla sicurezza sul lavoro. Quasi un «liberi tutti». Una deriva culturale che porta a sostenere che possa esserci un lavoro senza diritti. Questo c´è. Poi, non c´è dubbio, la crisi economica ha aumentato la pressione sui lavoratori. Non a caso sono aumentate le malattie professionali».
La crisi sta mettendo più a rischio la vita dei lavoratori nelle fabbriche?
«C´è chi ha usato la crisi per sostenere che prima di tutto viene il lavoro e sul resto (diritti, sicurezza, tutele) si può anche sorvolare».
Perché si continua a morire sul lavoro? Solo qualche giorno fa hanno perso la vita due lavoratori alla Saras dei Moratti in un incidente molto simile a quello della Thyssen.
«Perché non si fa tesoro dell´esperienza. C´è una cultura, ripeto, che gioca sulla povertà. Piuttosto penso che manchi un senso di mobilitazione civile per dire che è proprio ingiusto morire sul lavoro. Servirebbe una mobilitazione corale per dire che queste morti sono contro qualunque idea etica della società».
Eppure gli ultimi dati dell´Inail indicano un calo delle morti nell´ultimo anno.
«Ci andrei cauta perché vorrei capire quanto hanno inciso le ore di cassa integrazione, cioè di non lavoro».
In questo contesto culturale che lei descrive, c´è una responsabilità anche del governo?
«In quello che è accaduto non c´è una responsabilità diretta del governo. Ma certo questo governo è corresponsabile nell´aver creato un clima, un atteggiamento culturale, in cui si ritiene che i diritti non siano connaturati al lavoro».
Cosa è cambiato in Italia dopo la tragedia alla Thyssen?
«Purtroppo questo è diventato un paese che consuma qualsiasi notizia molto in fretta».

La Repubblica 16.04.11