attualità, politica italiana

"Quei vergognosi manifesti sui brigatisti in Procura", di Curzio Maltese

La scritta “Via le Br dalle procure” appesa davanti al Palazzo di Giustizia di Milano evoca alla memoria immagini che hanno segnato una generazione. Il corpo del giudice Emilio Alessandrini, massacrato dai proiettili di Prima Linea nel centro di Milano, dopo aver accompagnato il figlio a scuola.
Il sangue di Vittorio Bachelet, assassinato dalle Br, sparso sulle scalinate della Sapienza di Roma. Lo sguardo delle mogli, dei figli, dei genitori ai funerali dei tanti magistrati uccisi dal terrorismo. Il presidente del Consiglio, teorico dell´equazione fra magistrati e brigatisti, ha di sicuro l´età, ma non la decenza, per ricordare quei fatti. Per quanto, certo, all´epoca fosse già molto distratto dai propri affari. Mentre i suoi coetanei magistrati rischiavano e a volte sacrificavano la vita nella lotta per la democrazia, contro la mafia e il terrorismo, Berlusconi infatti si portava in casa un boss mafioso e trafficava con l´assistenza del fido Marcello Dell´Utri a caccia di capitali. Ma perfino un personaggio così, che la stampa estera definisce «tragico clown», potrebbe ogni tanto fare appello alla propria natura di uomo, quindi di padre, fratello, per capire che quella propaganda è uno schiaffo al dolore di altri padri, figli, fratelli, colpiti da un lutto terribile.
In fondo, anche i brigatisti avevano cominciato con le parole, le scritte davanti a Palazzo di Giustizia, i volantini contro i magistrati «servi della borghesia» e «boia di Stato». Le pallottole sono arrivate dopo anni di violenza verbale. Una volta stabilito che i magistrati erano uguali ai boia, agli assassini, perché non agire di conseguenza? Ma non è nemmeno questo il punto.
La questione è che abbiamo nostalgia di una politica che ispiri sentimenti normali. Normali per la politica, dov´è contemplato la polemica, anche la più aspra, con l´avversario. Ma non la vergogna e il ribrezzo che suscitano questi spettacoli. Il presidente del Consiglio ha da molto tempo un conto aperto con la giustizia. Non potendo difendersi nei processi e avendo la fortuna (per lui) di vivere nel paese più corrotto dell´Occidente, si difende dai processi con ogni mezzo. Dispone di una maggioranza cortigiana disposta a votare qualsiasi legge ad personam e finanche a dichiarare agli atti il falso, come nel caso della «nipote di Mubarak», pur di mantenersi al potere. A tutto questo siamo ormai abituati. Non rassegnati, ma abituati. Quello a cui non si riesce ad abituarsi è alla pretesa dei delinquenti d´infangare gli onesti, alla volontà dei ladri di mettere in galera le guardie. Al rovesciamento totale della realtà, che è la premessa di ogni regime totalitario. Gli animali che accusano di brigatismo le prime vittime del terrorismo, i magistrati, non sono moralmente tanto lontani dai razzisti che accusavano gli ebrei di tramare lo sterminio degli ariani. Sono soltanto, per fortuna, assai più ridicoli.

La Repubblica 16.04.11

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“La fine delle parole”, di MASSIMO GRAMELLINI

Vi prego: per una volta non minimizziamo, non cambiamo argomento, non dividiamoci fra guelfi ghibellini e menefreghisti, non rimpalliamoci il vuoto citando a mo’ di antidoto le fregnacce golpiste di quell’Asor Rosa. Concentriamoci tutti, invece, su quest’unica frase: «Via le Br dalla Procure». Lo striscione che la contiene campeggiava ieri sui muri di Milano, ispirato dall’ultima devastante boutade di un signore eletto dai cittadini per occupare una delle molte cellule (non l’unica) dell’organismo democratico: la presidenza del Consiglio. Se capisco bene, gli autori del manifesto sono convinti che i magistrati che indagano su di lui siano per ciò stesso paragonabili a degli assassini. Il legame fra due realtà antitetiche – Procure e Br, Stato e Antistato – sarebbe ravvisato da costoro nel furore ideologico. I giudici indagano come i terroristi ammazzavano: per odio di classe nei confronti dell’avversario politico.

Stento a capire perché quando indagavano su Craxi erano degli eroi, mentre se si occupano del suo «erede» diventano dei cerberi. Ma è un’opinione e come tale lecita. Inaccettabile è l’idea che qualsiasi inchiesta, in un Paese democratico, possa venire paragonata a un omicidio. Basta, per pietà. Altrimenti, a furia di metafore e voli pindarici – di kalashnikov e golpe virtuali – le parole si svuotano e noi diventiamo una babele dove nessuno ascolta più niente, nemmeno il suono della propria voce, e si condanna al silenzio che sempre echeggia fra le macerie.

La Stampa 16.04.11