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"Vite spezzate e colpe dei manager", di Daniele Manca

Una condanna pesante. Per un’accusa altrettanto pesante: omicidio volontario. Non era mai successo che per morti sul lavoro si ritenessero responsabili di una colpa così grave i manager dell’impianto dove si era verificata la tragedia. E in modo così netto e definito. La sentenza con la quale ieri sera la Corte d’assise di Torino ha riconosciuto l’omicidio volontario con dolo eventuale per i sette morti alla Thyssen di Torino nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007, è di quelle che faranno la storia e la giurisprudenza. Ogni giorno in Italia tre lavoratori non tornano a casa a causa di incidenti. Poco importa se quel numero (troppo lentamente) sta calando.
Quella strage silenziosa che si consuma giorno dopo giorno raccontata da stanche cronache, animate solo quando la tragedia è particolarmente cruenta o da un numero delle vittime insolitamente alto, ieri sera con la sentenza torinese è come se avesse trovato anch’essa un minimo di giustizia. Troppe volte in altre occasioni le morti sono scivolate nel disinteresse e nell’oblio. Anche quella della Thyssen è sembrata seguire lo stesso destino quando lo scorso autunno nelle aule semideserte il pubblico ministero Raffele Guariniello fece quella richiesta di condanna per sedici anni e mezzo di reclusione per l’amministratore delegato dell’impianto Haral d’ Espenhahn. I parenti delle vittime si sentirono soli in quell’aula. Accusarono tutti, sindacati, forze politiche, anche la città di averli dimenticati. Le parole del pubblico ministero che ricordarono quella notte di dicembre, quando la fuoriuscita di olio bollente prese fuoco e arrivò a bruciare sette vite, risuonarono nell’aula semivuota. La requisitoria raccontò di quelle spese per la sicurezza antincendio cancellate per un impianto che tanto era destinato alla chiusura. Raccontò di quel disinteresse per incidenti pure possibili. Quasi che i reati in materia di sicurezza sul lavoro non esistessero. Quasi che la giustizia non esistesse. Non è stato così. Faranno discutere le pene comminate, la loro severità o meno della decisione. Farà discutere il tipo di accusa, omicidio volontario con dolo eventuale. Ma quello che è avvenuto ieri nel Tribunale di Torino è un precedente importante. Ci dice che in un’Italia in perenne ricerca di riforme su ogni aspetto della vita civile, gli strumenti attuali già permettono di cercare e trovare giustizia. Certo, la sentenza non servirà a ridare la vita a quei sette operai che l’hanno persa. Ed è l’altro insegnamento. In tema di sicurezza del lavoro la severa prevenzione resta la strada maestra per fare sì che ogni giorno anche quei tre lavoratori che oggi non tornano a casa a causa di incidenti possano invece ritrovarsi ancora tra i loro cari.

Il Corriere della Sera 16.04.11

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«Abbiamo vinto Ma del mio ragazzo resta solo una foto», di Marco Imarisio

Nino Santino fatica, come sempre. Si fa largo con le braccia, annaspa, spinge, brandisce la sua giacca stazzonata come un cuneo. E infine raggiunge l’altra parte dell’aula per abbracciare il suo opposto, quell’uomo così lontano da lui, che sembra quasi lontano da tutto. Raffaele Guariniello, il magistrato dai modi algidi, dall’eloquio aristocratico. «Grazie» gli dice. E poi lo sommerge con la sua emotività, lo stringe a sé, lo bacia e lo ribacia, gli mette le mani sulla faccia. «Anche a nome di mio figlio…» . La frase resta sospesa nell’aria bollente dell’aula bunker. Guariniello subisce con stoicismo quello che per lui è un supplizio, il suo conclamato timore del contatto fisico con altri esseri umani è una costante fonte di anedottica. «Una condanna non è mai una festa o vittoria per nessuno» , risponde il pubblico ministero cercando di sottrarsi a ulteriori abbracci, «sarebbe stato meglio se questo processo non ci fosse mai stato» . Invece s’è dovuto fare, e sono stati due anni di udienze senza pietà. Adesso che il giudice Maria Iannibelli ha finito di leggere una sentenza storica, gli estremi si toccano. Nino Santino era diventato un’icona di questa tragedia. Le sue urla alla manifestazione del 10 dicembre 2007, tre giorni dopo la tragedia, avevano dato la misura del male, e della solitudine che circondava le famiglie delle vittime, in una Torino che si era mostrata assente, distratta. Malediceva tutti, con la sua cadenza meridionale, chiedeva a Dio di restituirgli il suo Bruno, il più giovane degli operai della linea 5, il più lento a morire. Oggi si è vestito come allora, con una maglietta sopra il maglione, l’immagine di un ragazzo che sorride. Sulla faccia incorniciata da una barba incolta ha i segni di questi anni, non solo l’assenza, ma anche la storia di un processo e di una situazione di vita dura, che ha messo le famiglie davanti a scelte dolorose. «Se potessi tornare indietro, non accetterei mai gli indennizzi della Thyssen. Ma ne avevamo bisogno, non potevamo fare senza. Quei soldi ci hanno diviso, hanno separato le famiglie delle vittime dagli altri operai. Ma oggi almeno, abbiamo avuto giustizia, e sinceramente non ci speravamo» . È il riassunto di un processo che ha avuto momenti amari, con famiglie unite dalla tragedia che si dividevano per questioni materiali, e un gruppo di pm che andava avanti consapevole di cavalcare un azzardo giuridico. In questa sera di bolgia, nella calca sudata dell’aula bunker, i due volti che rappresentano il senso di questa sentenza sono quello affannato dell’ex operaio Fiat rimasto senza un figlio e quello senza espressione del magistrato considerato un rompiscatole, ma l’unico forse a occuparsi di certi temi in Italia. La storia dei Santino è quasi un Bignami di quelle delle altre famiglie rimaste senza un figlio. Immigrati, arrivati da Roccapalomba, in provincia di Palermo. Lui operaio Fiat, poi cassintegrato, poi pensionato. I suoi due figli, Luigi e Bruno, assunti nel marzo 2003 alla fabbrica dei tedeschi, loro la chiamavano così, per quello che sembrava un avanzamento sociale. Uno stabilimento moderno, che presto non si è rivelato tale, passato dalle assunzioni alla chiusura. Anche oggi Nino maledice un barista di Cherasco che esitava a cedere l’attività al figlio e alla sua fidanzata. Volevano andarsene tutti, Bruno era già tornato a casa «sbollentato» dagli sbuffi d’olio, aveva paura. Non c’era quasi più nessuno in quella fabbrica, solo gli ultimi disperati. «Io campo con la pensione di mio figlio, non le sembra già questa una cosa contronatura? Dicono che il tempo guarisce dal dolore, ma è vero solo nei film. Doveva sposarsi, doveva darmi dei nipoti. Adesso è questa foto sulla maglietta, nient’altro» . Guariniello osa un gesto inedito, gli mette una mano sulla spalla. Coraggio, gli dice. La sua apparente distanza è sempre e solo stata un espediente per gestire l’aspetto emotivo di storie terribili, come lo sono sempre quelli dei morti di lavoro, di disastro ambientale. Non è un aristocratico, suo papà faceva il sarto a Salerno, sua madre era una casalinga di Alessandria. Spesso deriso per quelle che erano considerate fissazioni, per iniziative giudiziarie poco ortodosse, sempre ossessionato dalla sicurezza sul lavoro. Nino Santino, ormai in lacrime per la tensione, non smette di abbracciarlo, e intanto gli fa largo verso l’uscita come se stesse proteggendo una Madonna pellegrina.

Il Corriere della Sera 16.04.11