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"La politica curi la sua malattia", di Giuliano Amato

L’uscita di Emma Marcegaglia sulla solitudine degli imprenditori ha provocato una pluralità di commenti, nutriti in più casi da spunti velatamente o anche esplicitamente critici nei suoi confronti, che sembrano tuttavia non vedere la piaga su cui la presidente di Confindustria ha messo giustamente il dito. C’è chi ha letto nelle sue parole la nostalgia per i vecchi incentivi che oggi la politica non offre più e ha auspicato al loro posto una politica industriale fatta largamente dal basso dalle stesse imprese, innovando e puntando sulle esportazioni. C’è chi ha invitato gli imprenditori ad assumersi le responsabilità che non si assumono, perché ciò che non va non è tanto la politica, quanto il fatto che tutti si comportano come i politici, ripetono cioè gli elenchi, noti e stranoti, delle cose da fare, ma non hanno il coraggio di spendersi per la loro realizzazione.
Ebbene, c’è sempre una parte di ovvia verità in affermazioni del genere. Ma la ragione della solitudine denunciata da Emma Marcegaglia non è la mancanza d’incentivi. La questione da lei sollevata è un’altra e va al cuore della malattia politica di cui oggi soffre l’Italia.
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Ricapitoliamo gli antefatti. I lettori del Sole 24 Ore sono fra coloro che sanno quanto sia cruciale per l’Italia dotarsi di un ritmo di crescita che superi la media così bassa degli ultimi dieci anni e si porti almeno al 2 per cento. Ne va della nostra capacità di ridurre il debito pubblico così come da oggi nell’Eurozona saremo tutti tenuti a fare, senza infilarci in un circolo vizioso che ci porterebbe prima a ridurre il nostro tenore di vita e la disponibilità stessa dei servizi di cui ancora godiamo, poi a subire una caduta del Pil e delle entrate che ci farebbe anche perdere il controllo del debito, e infine a trovarci alla mercé dei mercati.
È di gran lunga la questione più drammaticamente importante che l’Italia abbia davanti e tale viene considerata dagli esperti e dagli studiosi che da tempo la tengono d’occhio e da tempo hanno identificato sia i problemi irrisolti a cui l’Italia la deve, sia le soluzioni con le quali la potrebbe fronteggiare. Già, perché tutto possiamo dire fuorché sostenere che ci troviamo davanti all’operare di forze oscure o di circostanze comunque al di fuori della nostra portata. Non è così. Proprio Emma Marcegaglia e io ci siamo trovati giorni fa a far notare a chi ci ascoltava che ci si sente addirittura in imbarazzo a fare per l’ennesima volta l’elenco delle disfunzioni e diseconomie italiane e dei modi in cui le si potrebbe almeno ridurre, in vista di una maggiore produttività e quindi di una crescita più elevata. Lo sappiamo di avere molte eccellenze e molte imprese capaci di esportare, ma sappiamo anche di averne molte di più che non sono in grado di seguire questi esempi perché sono troppo piccole e la loro crescita è scoraggiata da un insieme di fattori, che vanno dalla finanza, alla disciplina del lavoro, al peso delle diseconomie esterne.
Lo sappiamo che il nostro sistema d’istruzione nell’insieme è ancora buono, ma sappiamo che vi sono tanti percorsi universitari tarati più sulle ragioni dei docenti che su quelle dei discenti. Lo sappiamo di avere degli ottimi treni veloci, ma sappiamo anche che le infrastrutture del Paese soffrono di arretratezze e ritardi che riusciamo a ridurre soltanto con le regole (rischiosissime) dell’emergenza. Lo sappiamo di avere degli ottimi laureati superqualificati, ma sappiamo anche che la nostra arretratezza interna riduce drasticamente per loro le possibilità di lavoro in Italia.
Insomma, una cosa è sicura. La questione italiana non è dovuta al fatto che non conosciamo i nostri problemi o che non abbiamo riflettuto sulle possibili soluzioni. Ciò che ci difetta, davanti ai problemi, è caso mai la capacità di risolverli. Perché? Perché i tanti che possono concorrere all’una o all’altra delle soluzioni che servono non assumono le responsabilità necessarie a tal fine? È ben possibile che sia così e sono sempre benvenuti gli appelli affinché ciascuno faccia la sua parte e rinunci a un presente per lui più comodo in vista di un futuro più sicuro per tutti. È tuttavia altamente improbabile che qualcuno assuma le sue responsabilità, se altrettanto non fanno gli altri da cui dipende il successo comune. Ed è ancora più improbabile in un Paese nel quale si sia indebolito il sentimento dell’interesse collettivo e l’incoraggiamento prevalente sia stato quello di badare ciascuno ai propri interessi.
È il clima allora a non essere quello che dovrebbe, è la forza dell’interesse collettivo a non farsi sentire, è l’urgenza di uscire da un presente gravido di rischi a non essere percepita. Che cos’è allora che manca? Manca quell’essenziale trasformatore che solo la politica può metterci ed è del resto ciò che ne giustifica l’esistenza. La politica non serve a dotarci di leader e di governanti che si limitino a registrare le ansie e i timori dei cittadini, senza mai fare un passo che possa destare il loro temporaneo dissenso. Specie nei momenti difficili, la politica serve a portare al centro della nostra attenzione le soluzioni che servono a uscire dai guai. Serve a mostrare gli eventuali sacrifici che esse ci chiedono oggi, ma anche i benefici che ne verranno domani. Serve a convincere ciascuno che, se un pedaggio ci sarà, non sarà il solo a pagarlo, perché c’è chi assicura l’impegno di tutti. Serve insomma a renderci tutti partecipi della necessità di cambiare e a iniettare in noi la fiducia per farlo davvero.
Ecco, è esattamente questo ciò che oggi la politica, tutta la politica, non sta facendo, dando ragione al sentimento di solitudine di chi avverte l’insostenibilità del presente, si guarda intorno e vede troppi occhi distratti. Dice il ministro dell’Economia: ho appena fatto approvare dal Consiglio dei ministri un corposo programma di riforme per la competitività e la crescita, che ben può placare questo sentimento. Sì, lo può fare, ma di sicuro non lo fa se è soltanto approvato nella “pausa mensa” di una giornata politica destinata ad altro per essere poi discusso nella lontana Bruxelles, e non è invece portato al centro del dibattito pubblico e utilizzato perciò non per alimentare dispute fra specialisti, ma per rendere i cittadini consapevoli di ciò che li aspetta e delle opzioni tra cui scegliere per il loro futuro.
Ci sono stati più momenti nella nostra storia, e l’autunno del 1992 fu uno di questi, nei quali il dibattito sulle prospettive economiche e finanziarie non fu chiuso fra gli specialisti, ma entrò nella coscienza di tutti gli italiani, nutrendo le loro conversazioni e guidando le scelte di chi li informava nei media. So bene che nell’autunno del 1992 eravamo più in zona Cesarini di quanto fortunatamente non siamo oggi. Ma c’era anche una politica che faceva il suo mestiere. È possibile che, disastrata com’era, fosse migliore di quella di oggi?

Il Sole 24 Ore 17.04.11