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"Diritto di vivere, diritto di morire", di Adriano Sofri

Ci sono incipit memorabili, come questo nei titoli d’agenzia di ieri: “Il Parlamento accelera sul fine vita”. Svelti, si muore. Cioè, si vota. In realtà era un falso movimento, la simulazione di un’inversione dell’ordine del giorno fra la borsa e la vita: ma la borsa – il “Documento di economia e finanza”- conserva la precedenza, e la vita può aspettare, fino a maggio inoltrato almeno. Votare di maggio ci vuole tanto, troppo coraggio, ma questi ce l’hanno. Ieri, per stare al gioco, Berlusconi ha inoltrato una lettera aperta ai suoi deputati. Chiunque gliel’abbia scritta, ha fatto in modo che trasparisse il carattere apocrifo del testo.

C’è anche un appello ultraweberiano a conciliare l’etica della convinzione con quella della responsabilità, “come sempre” e una propria convinzione assai poco favorevole alla legge. Il risultato fa sobbalzare. Recita la lettera: “Sul ‘fine vita’, questione sensibile e legata alla sfera più intima e privata, non si dovrebbe legiferare e anch’io la penserei così se non ci fossero tribunali che, adducendo presunti vuoti normativi, pretendono in realtà di scavalcare il Parlamento e usurparne le funzioni”.

C’è un capo e una coda. Il capo è ragionevolissimo, e ben detto, fino a “non si dovrebbe legiferare” compreso. Qui occorreva far punto, e piantarla lì. Ma la lettera era di Berlusconi, e Berlusconi è uomo d’osservanza alla morale cattolica, nella versione propugnata dalla gerarchia, tanto
più quando si tratti delle “questioni legate alla sfera più intima e privata”. Dunque la coda, “anch’io la penserei così, se non…”. Se non cosa? Uno pensa che non si debba invadere la sfera più intima e privata, addirittura l’ora della nostra morte, e poi trova un argomento minore, una riserva, che lo induce ad accantonare un pensiero così decisivo? E qual è questo argomento? “I magistrati”, diranno subito all’unisono i miei lettori grandi e piccoli, e infatti. Tribunali. Nemmeno più le Procure e i Pubblici Ministeri: Tribunali a carriere riunite. Il riferimento implicito ma fin troppo chiaro è ancora una volta alla ragazza Eluana e all’infinito dolore dei suoi. I tribunali si pronunciarono tante volte e nei modi più diversi su quella vicenda amarissima, che altrimenti sarebbe stata sciolta brevi manu. Un uomo triste e coraggioso volle che fosse riconosciuto il diritto alla scelta che sapeva essere stata di sua figlia. Alla fine di un vero calvario, “i tribunali” lo riconobbero, e anche allora governo e maggioranza parlamentare si accanirono ostentatamente nella gara a disputargli il corpo di sua figlia. Non la volevano, allora, una legge che sancisse ciò che dovrebbe essere la premessa di ogni relazione fra gli umani, il diritto di ciascuno a decidere del proprio corpo, a essere il proprio corpo. Erano gli altri a propugnare la legge, a voler mettere nero su bianco una libertà così elementare e fondativa. Poi, di colpo, la maggioranza si ricordò di essere maggioranza, e di poterne abusare, e scelse euforicamente di battersi lei per una legge alla rovescia, che negasse quel diritto, che mettesse il mondo a testa in giù e proclamasse l’idratazione e l’alimentazione artificiale pratiche obbligatorie per mano dello Stato.

È passato tanto tempo, da allora, e i compiaciuti deliri di questa maggioranza e del governo che la tiene al guinzaglio si sono spinti molto oltre anche nelle dichiarazioni più futili e grottesche.

Ministri e Parlamento vogliono decretare che la nutrizione forzata (avete provato? Io sì) non è una terapia. Hanno decretato che una ragazza cui vanno tutti i miei auguri era, secondo il capo del governo, una nipote d’Egitto. Scherzi da prete, seriamente argomentati e votati da uomini (e donne) adulti e ben pagati: al cui colmo sta lo scherzo da vescovo per il quale la persona non può decidere di sé, della propria nutrizione forzata, della rinuncia a cure non più volute e anzi temute e aborrite. Si è detto mille volte che il risvolto paradossale di questa orrenda prepotenza sta nella diffusa indifferenza al bisogno di aiuto morale e materiale di coloro che, a costo di ogni sofferenza, desiderano continuare a essere curati e a vivere. Si usa come un esorcismo la parola “eutanasia”, facendone il sinonimo del rifiuto dell’accanimento della cura. E si ignora la differenza da chi rivendica una libertà per sé battendosi perché a ciascun altro sia assicurata la stessa libertà, anche quando si traduca in scelte opposte. È questa, oltre alla constatazione di un governo e una maggioranza parlamentare di introvabile ottusità e arroganza, la ragione vera della superfluità di una legge, che non vuole garantire a tutti un diritto, ma solo negarlo ad alcuni (e gli alcuni sono per di più la maggioranza dei cittadini: ma sarebbe lo stesso se si trattasse della minoranza di uno).

Ecco, mi sono di nuovo fatto prendere la mano e scrivere parole solenni, così fuori posto nella tragicommedia in corso. Torniamo alle frasi firmate da Berlusconi, e in particolare a quel piccolo argomento che capovolge il principio, quella minuscola riserva: “Se non ci fossero tribunali…”. Ipotesi sentita, quasi sognante: “Se non ci fossero tribunali”, come sarebbe bella la vita, e il fine vita. La conclusione necessaria della lettera di Berlusconi sarebbe un’ennesima, e appena più drastica e universale, riforma della giustizia: l’abolizione dei tribunali. Ma qui la lettera ha esitato, le è mancato, nonostante tutto, il coraggio. Per questo, i tempi non sono ancora maturi. Dunque accontentiamoci dell’espropriazione dei corpi agonizzanti che la nostra legge, “sintesi e mediazione alta”, consente. “Noi liberali, cristiani, socialisti, riformisti, credenti di fedi diverse e non credenti- scrive la lettera – noi moderati, insomma, siamo convinti che la libertà, bene prezioso, non possa arrivare a negare la vita”. Tutti gli altri, noialtri, neghiamo la vita. Mah. Dirò un’ultima cosa seria a Berlusconi e a chi per lui. Questa legge solleva in tante persone di ogni età e condizione d’animo e di salute una paura, un’offesa e uno scandalo tali che potrà diventare il fomite di decisioni estreme, dettate dalla volontà di sottrarre sé o i propri cari a una violazione e una sofferenza senza riparo. Ci pensi, chi abbia ancora a che fare con la vocina della coscienza.

La Repubblica 28.04.11