attualità, politica italiana

Intervento del Presidente Napolitano in occasione della celebrazione della Festa del Lavoro

Ringrazio vivamente anch’io il Presidente Giuliano Amato per la sua disponibilità e per il contributo che ci ha offerto ripercorrendo da par suo il lungo tracciato dell’evoluzione sociale che da un primo maggio all’altro l’Italia ha conosciuto. In sintesi, egli ci ha detto – avete ascoltato le sue parole – che cosa sia, “nel passato che la precede, nella sua stessa storia e nel suo presente, la Repubblica fondata sul lavoro”, e ha concluso : “Il suo problema di oggi non è esserlo di meno, è, caso mai, esserlo di più”. E’ così, lo sentiamo tutti : lo sviluppo economico e la sua qualità sociale, la stessa tenuta civile e democratica del nostro paese, passano attraverso un deciso elevamento dei tassi di attività e di occupazione, un accresciuto impegno per la formazione e la salvaguardia del capitale umano, un’ulteriore valorizzazione del lavoro, in tutti i sensi.

Questo discorso riguarda in special modo i giovani, fa tutt’uno con le risposte da noi tutti dovute alle aspettative per il futuro delle giovani generazioni.
Il quadro generale dell’andamento della disoccupazione in Italia nel biennio della crisi economica, anche per effetto delle politiche di sostegno condotte attraverso la leva degli ammortizzatori sociali, merita valutazioni obbiettive e attente e non si presta, anche in un’ottica di comparazioni europee, a facili giudizi stroncatori. Ma indubbiamente allarmano i dati relativi ai giovani tra i 15 e i 29 anni.

E se spesso l’accento è stato posto sulla precarietà dell’occupazione dei giovani – calcolati in 800 mila – con contratti di lavoro a tempo determinato, quel che deve allarmare e richiede il massimo sforzo di riflessione, è il dato dei quasi 2 milioni di giovani fuori di ogni tipo di occupazione, ormai fuori dal ciclo educativo e non coinvolti nemmeno in attività di formazione o addestramento. Quest’area, definita con l’acronimo NEET, Not in Employment Education or Training, è composta di circa 700 mila disoccupati e in misura quasi doppia di inattivi.

In questa condizione di forte disagio e incertezza per larghi strati di giovani si riflettono evidentemente debolezze non recenti del nostro complessivo processo di crescita : se è vero che prima dell’insorgere della recente crisi globale, il PIL è aumentato in Italia, tra il 2000 e il 2007, di circa il 7 per cento, meno della metà del decennio precedente. Nello stesso periodo nell’area dell’euro il PIL è cresciuto circa del doppio.

Per poter aprire nuove prospettive di occupazione in tutto il paese, è dunque imperativo riuscire a intervenire su cause strutturali di ritardo della nostra economia. Ed è imperativo farlo in uno col perseguimento di obbiettivi tanto obbligati quanto ardui – concordati in sede europea – di rientro dell’Italia dalla situazione di disavanzo eccessivo e di riduzione del peso del debito pubblico. Se si assume il traguardo di un sostanziale pareggio del bilancio nel 2014, che comporterà un’ulteriore manovra, per il 2013-14, di riduzione della spesa pubblica di oltre quattro punti di PIL, è facile intuire come sarà essenziale la caratterizzazione secondo ben ponderate priorità di tale manovra, e quindi la combinazione tra questa e le azioni volte a rafforzare il potenziale di crescita dell’economia e dell’occupazione.

E’ di ciò che si è discusso e ancora si discuterà in Parlamento sulla base del Documento di Economia e Finanza 2011 presentato dal governo e comprendente sia il Programma di stabilità sia il Programma Nazionale di Riforma nel quadro della procedura del semestre europeo definita dal Consiglio Europeo dello scorso 24-25 marzo.

Le audizioni svoltesi presso le Commissioni Bilancio riunite di Senato e Camera nelle ultime settimane hanno fornito al Parlamento apporti esterni di grande ricchezza e serietà, mettendo comunque in evidenza l’estrema tensione dello sforzo che si richiede al paese. E io mi chiedo se l’insieme delle parti sociali e delle forze politiche ne abbia piena consapevolezza e concentri come dovrebbe la propria attenzione sulle più ambiziose proposte di riforma – come quella fiscale – delineate dal governo e sulle indicazioni da esso prospettate con impegno per quel che riguarda le politiche e azioni più rilevanti ai fini dell’occupazione, della formazione del capitale umano, dell’evoluzione dei rapporti tra mondo dell’impresa e mondo del lavoro.

E’ davvero aperto e da esplorare con spirito propositivo il campo delle reali possibilità o condizioni di successo tanto degli obbiettivi ineludibili di consolidamento dei conti pubblici quanto degli obbiettivi di crescita più sostenuta, guardando alle situazioni più preoccupanti – soprattutto, si deve ribadirlo, il Mezzogiorno dove è stata drammatica la perdita di posti di lavoro – e alle esigenze e domande delle giovani generazioni.

Tra le condizioni di successo di un programma necessariamente ambizioso e innovativo, c’è certamente quella dell’avvio di un nuovo clima di coesione sia politica sia sociale. E a quest’ultimo proposito, mi riferisco sia alle relazioni tra le diverse parti sociali sia alle relazioni tra i sindacati dei lavoratori. Sarebbe, sia chiaro, fuorviante e irrealistico immaginare il superamento di naturali contrasti tra mondo delle imprese e mondo del lavoro, o di motivi di attrito e competizione tra le diverse organizzazioni dei lavoratori. Ma mi domando – ed è una domanda che può riferirsi anche alle relazioni tra le forze politiche : è inevitabile l’attuale grado di conflittualità, è impossibile l’individuazione di interessi e di impegni comuni? Si teme davvero che possa prodursi un eccesso di consensualità, o un rischio di cancellazione dei rispettivi tratti identitari e ruoli essenziali?

E’ sufficientemente chiaro il bisogno che io avverto già da tempo di un richiamo alla durezza delle sfide che ci attendono e già ci incalzano, mettendo alla prova, ed esponendo a incognite gravi, tutti gli attori sociali e politici e in definitiva il profilo storico, il peso, il futuro della nazione. Sembra quasi, talvolta, che l’accogliere oppure no, il far propri sinceramente oppure no quei miei richiami, o comunque si vogliano definirli, sia una questione di galateo istituzionale o un esercizio di ipocrisia istituzionale. Ma è ai fatti, e alle conseguenti responsabilità, che sempre meno si potrà sfuggire senza mettere a repentaglio quel qualcosa di più grande che ci unisce, quel comune interesse nazionale che non è un ingannevole simulacro, e senza finire per pagare prezzi pesanti in termini di consenso.

E allora permettetemi, amici delle organizzazioni sindacali, di esprimere preoccupazione crescente dinanzi al tradursi di contrasti che tra voi possono sempre sorgere e di motivi di competizione che non debbono stupire, in contrapposizioni di principio, in reciproche animosità e diffidenze, in irriducibili ostilità. La nostra storia – a partire dal 1944 e nonostante periodi di rottura e divisione – ci dice quel che l’unità sindacale ha dato ai lavoratori, alla democrazia, al paese. La rinuncia a sforzi pazienti di ritessitura quando si producano lacerazioni e diventino indispensabili dei ripensamenti, può portare solo al peggio, dal punto di vista del peso e del ruolo del lavoro e delle sue rappresentanze. E in positivo desidero citare – trattandosi di tema che mi è stato e mi è particolarmente caro, nella sua persistente drammaticità – l’influenza che i sindacati hanno esercitato essendo uniti, per garantire più sicurezza sul lavoro. Registriamo così anche quest’anno risultati positivi, per effetto di provvedimenti legislativi e di comportamenti più responsabili che i sindacati hanno sollecitato, promuovendo un clima innovativo anche sul piano giurisprudenziale.

Ma vorrei concludere allargando lo sguardo al di là degli interlocutori istituzionali e delle organizzazioni sociali. Nel celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ho richiamato le grandi prove di impegno collettivo che hanno segnato la nostra storia e che ci indicano la via di una rinnovata fiducia in noi stessi. Impegno collettivo significa “mobilitazione e responsabilità” – come ha detto il Ministro Sacconi – “dei singoli come dei corpi sociali”. Debbono fare la loro parte – perché il paese possa fronteggiare con successo le sfide di oggi e di domani – quanti hanno ruoli di rappresentanza e di guida nella politica e nelle istituzioni, nell’economia e nella società, ma in pari tempo – come volli sottolineare nel mio messaggio di fine anno – ogni comunità, ogni cittadino. E dunque, ogni lavoratore, ogni giovane. E’ l’esempio che avete dato voi, cari Maestri del Lavoro. Alle riforme tocca – ha chiarito il Ministro del Lavoro – “offrire a uomini e donne contesti e ambienti idonei a massimizzare il potenziale che è in ognuno di loro”. Ma occorre poi il massimo concorso di volontà ed apporti individuali fino a comporre, innanzitutto sul piano morale, quel nuovo grande impegno collettivo di cui ha bisogno l’Italia.

Rivolgo ancora, in questo spirito, il mio saluto ed augurio ai Rappresentanti dei Lavoratori Anziani di Azienda ed egualmente ai Rappresentanti della Federazione Cavalieri del Lavoro, anch’essi testimoni di una straordinaria somma di sforzi e di contributi personali e sociali nell’interesse comune.

Buon 1° maggio!

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Napolitano richiama i sindacati “Temo per la coesione sociale”

Monito del presidente della Repubblica ai leader sindacali al Quirinale. “La mancanza di unità sindacale porta al peggio. Impossibile individuare interessi e impegni comuni?”. Tra le condizioni per il rilancio del Paese anche “nuovo clima di coesione politica e sociale”. “Ho qualche motivo di preoccupazione per la coesione sociale del paese. E la mancanza di unità sindacale porta al peggio dal punto di vista del peso e del ruolo del lavoro e delle sue rappresentanze”. E’ il timore che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha espresso ai leader sindacali di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti e Giovanni Centrella, accompagnati dalle rispettive segreterie al Quirinale prima dell’inizio della cerimonia ufficiale per la celebrazione della Festa del lavoro.

Napolitano coglie l’occasione per tracciare un quadro della situazione politica ed economica italiana, toccando Mezzogiorno, disoccupazione, soprattutto giovanile, e disavanzo pubblico. L’Istat ha certificato la dissoluzione di 533.000 posti di lavoro negli ultimi due anni (da 22.405.000 occupati a 21.872.000), di cui l’80% dei quali nell’industria e la metà nel Sud. Dati, sottolinea il presidente, per certi versi drammatici. Richiedono interventi, ma il presupposto, sottolinea, “è certamente l’avvio di un nuovo clima di coesione sia politica sia sociale”.

“La nostra storia – premette il presidente della Repubblica -, a partire dal 1944 e nonostante periodi di rottura e divisione, ci dice quel che l’unità sindacale ha dato ai lavoratori, alla democrazia, al Paese. La rinuncia a sforzi pazienti di ritessitura quando si producano lacerazioni e diventino indispensabili dei ripensamenti, può portare solo al peggio, dal punto di vista del peso e del
ruolo del lavoro e delle sue rappresentanze”.

“Permettetemi, amici delle organizzazioni sindacali – prosegue Napolitano -, di esprimere preoccupazione crescente dinanzi al tradursi di contrasti, che tra voi possono sempre sorgere, in contrapposizioni di principio, reciproche animosità e diffidenze, irriducibili ostilità” . C’è invece “il bisogno – prosegue il capo dello Stato -, che io avverto già da tempo, di un richiamo alla durezza delle sfide che ci attendono e che già ci incalzano” senza indugiare “nell’attuale grado di conflittualità” politica e sociale.

“Mi domando – si chiede il capo dello Stato -, ed è una domanda che può riferirsi anche alle relazioni tra le forze politiche: è inevitabile l’attuale grado di conflittualità, è impossibile l’individuazione di interessi e impegni comuni? Si teme davvero che possa prodursi un eccesso di consensualità, o un rischio di cancellazione dei rispettivi tratti identitari e ruoli essenziali? L’Italia ha bisogno di un nuovo clima di coesione, sia politica sia sociale. L’attuale grado di conflittualità deve essere superato senza avere paura che così facendo si cancellino identità o tratti essenziali del proprio agire”. In ogni caso, ribadisce il presidente, è ora di dire basta a quell’esercizio di “ipocrisia istituzionale” che spesso segue i richiami del presidente della Repubblica.

Giorgio Napolitano chiude la cerimonia dando anche le indicazioni che ritiene necessarie per superare l’attuale momento di difficoltà. “Per poter aprire nuove prospettive di occupazione in tutto il Paese è imperativo riuscire a intervenire sulle cause strutturali di ritardo della nostra economia”. “E’ imperativo farlo – sottolinea il presidente – col perseguimento di obiettivi tanto obbligati quanto ardui, concordati in sede europea, di rientro dell’Italia dalla situazione di disavanzo eccessivo e di riduzione del peso del debito pubblico”. Ma “tra le nuove condizioni di successo di un programma necessariamente ambizioso e innovativo – ricorda Napolitano, rivolgendosi ancora ai sindacati – c’è certamente l’avvio di un nuovo clima di coesione politica e sociale. E mi riferisco sia alle relazioni tra le diverse parti sociali, sia alle relazioni tra i sindacati dei lavoratori”.

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