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"Quel dolore che non si può cancellare", di Mario Calabresi

Giustizieremo i nostri nemici, o li assicureremo alla giustizia. Giustizia sarà fatta», così si concludeva il discorso alla nazione di George W. Bush dopo gli attentati dell’11 Settembre. «Giustizia è fatta», ha detto ieri notte Barack Obama. Tra le due frasi sono trascorsi dieci anni, la guida degli Stati Uniti è passata dai repubblicani ai democratici, la guerra in Iraq è cominciata e poi finita, ma il nemico numero uno dell’America era rimasto lo stesso.

Oggi noi europei possiamo stupirci che il premio Nobel per la Pace abbia usato la stessa frase del suo predecessore, da cui a lungo ha preso le distanze, ma negli Stati Uniti in festa nessuno ha avuto questa sensazione. Così come possiamo provare disagio di fronte a chi grida la sua gioia in piazza alla notizia che un uomo, anche se è il peggiore dei terroristi, è stato ammazzato. L’idea che la mente dell’attacco più sanguinoso della storia andasse eliminata per chiudere una ferita ha però sempre unito destra e sinistra, giovani e vecchi. Perfino l’Obama più idealista, quello che in campagna elettorale prometteva la chiusura di Guantanamo e il ritiro da Baghdad.

L’uomo che teorizzava la fine dell’uso della tortura negli interrogatori, quello che parlava di diritti civili e della necessità di ricostruire l’immagine dell’America, ha sempre messo in cima alle sue priorità la cattura di Osama bin Laden. Ricordo il candidato democratico di fronte a una platea di studenti universitari, che innalzavano cartelli pacifisti, concludere il suo discorso con l’assicurazione che se fosse stato eletto avrebbe preso il leader di Al Qaeda «vivo o morto». Ricordo gli applausi dei ragazzi, l’ovazione per quella promessa.

Proprio i giovani sono stati i primi a scendere in piazza, quella generazione che è cresciuta nella sofferenza dell’11 Settembre, nella sensazione della sconfitta e della paura, che, dopo il crollo delle Torri, ha visto quello della finanza e ora vive la minaccia del sorpasso cinese.

Bin Laden era il simbolo della vulnerabilità dell’America, dell’inizio del tanto discusso declino, dell’incapacità di rialzare davvero la testa. La morte dello sceicco saudita chiude psicologicamente il decennio peggiore della storia recente degli Stati Uniti, al di là di ogni considerazione sul pericolo di nuovi attentati e sul fatto che il terrorismo di matrice islamica non è certo debellato. Tanto che ieri i poliziotti sono tornati a presidiare ogni fermata della metropolitana e i militari nelle stazioni e negli aeroporti.

Ma ogni considerazione e ogni commento sono sterili se non tengono conto del dolore che l’11 Settembre ha creato in tutta l’America, come ha ricordato Obama nel suo discorso, non si è trattato soltanto della cifra ufficiale dei morti ma di tutto quello che non si è visto: «La sedia vuota di una famiglia a tavola, i bambini costretti a crescere senza la madre o il padre, i genitori che non proveranno mai più l’abbraccio di un figlio». La reazione a cui abbiamo assistito ieri era la testimonianza del valore della memoria, del fatto che i quasi tremila morti non sono stati dimenticati.

Non c’è newyorchese che non abbia avuto una vittima da ricordare tra gli amici, i parenti, i colleghi di lavoro o i vicini. Nel condominio accanto a quello cui abitavo a Manhattan, ogni anniversario del crollo del World Trade Center, veniva messa all’ingresso la foto di una ragazza che lavorava ai piani alti della Torre Nord, tutte le famiglie lasciavano un biglietto con un loro breve racconto. Chi le comunicava che nella casa negli ultimi dodici mesi c’era stato un nuovo nato, un matrimonio, una laurea o che qualcuno se n’era andato. I foglietti scritti a penna sulla carta dei quaderni non avevano niente di burocratico ma erano pieni di vita e di amicizia.

Per capire la profondità della ferita dell’11 Settembre ho avuto bisogno di conoscere Carrie Lemack, la sua storia mi ha insegnato molto di più delle immagini degli attentati, degli uomini e delle donne che volavano giù dai due grattacieli e dell’odore acre che per settimane aveva invaso New York. La mamma di Carrie si chiamava Judy Larocque, aveva 50 anni e guidava una piccola società di marketing per Internet. Viveva in campagna a mezz’ora di macchina da Boston e, oltre alle due figlie, aveva tre passioni: lo yoga, il suo grande roseto e Naboo, un golden retriever con cui camminava per chilometri ogni giorno intorno a Lake Cochituate, una riserva d’acqua dolce che per oltre un secolo ha dato da bere alla capitale del Massachusetts.

La mattina dell’11 Settembre era salita sul volo numero 11 dell’American Airlines, diretta a Los Angeles, e la sua vita sarebbe finita, insieme a quella di altre 91 persone, alle 8 e 46 nell’impatto con la Torre Nord. Alle figlie non rimase neanche un corpo da seppellire: la spiegazione tecnica fu che era stato vaporizzato dal calore dell’esplosione. Carrie andò ad abitare nella casa con il roseto, che smise di fiorire, si prese cura del cane, dedicò la panchina con la migliore vista sul lago alla madre e diventò una delle più attive sostenitrici della creazione della Commissione d’indagine sugli attentati. Quattro anni fa ricevette una lettera che la invitava a recarsi a New York: nei lavori di ristrutturazione di un palazzo vicino a Ground Zero avevano trovato dei frammenti di una tibia che il Dna aveva stabilito appartenevano proprio a Judy. Le consegnarono una scatola che si tenne sulle gambe nel viaggio di ritorno in treno fino a Boston. La seppellì sotto il roseto. Qualche mese dopo l’ho incontrata e mi ha raccontato che il roseto aveva ripreso a fiorire.

La Stampa 03.05.11