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"Successi di governo se una donna su due è senza lavoro", di Cesare Damiano

I dati Istat parlano chiaro: per quanto riguarda l’occupazione femminile siamo, nel mondo, all’88. posto. Ma Sacconi esulta… I dati dell’Istat parlano, a marzo, di una disoccupazione in risalita all’8,3 per cento. A star peggio, insieme ai giovani, sono le donne. Al femminile, il tasso dei senza lavoro è del 9,2 per cento, lo 0,1 in più rispetto al mese precedente. Il quadro peggiora se, anziché alla percentuale di chi è alla ricerca di un posto, si guarda il tasso di inattività. Oltre il 49 per cento delle donne non ha un lavoro. In pratica, una su due. L’obiettivo stabilito per l’Italia dal Trattato di Lisbona, che fissava al 60 per cento entro il 2010 la soglia dell’occupazione femminile, è stato mancato. Nel mondo, siamo al 96esimo posto per quel che riguarda la partecipazione delle donne alla vita economica e all’88esimo per la loro partecipazione al lavoro. Un fallimento. Nonostante questi dati, però, il ministro Sacconi gongola. Afferma che, grazie a terziario e turismo, il riequilibrio tra occupazione maschile e femminile procede. E, in occasione del Primo Maggio, arriva ad esaltare «le buone pratiche aziendali volte alla conciliazione tra i tempi di lavoro e i temp di famiglia», che sarebbero fattori di sostegno alla famiglia stessa e all’occupazione femminile.
Eppure, anche in quest’ultimo caso, i dati rivelano una realtà diversa. È stato lo stesso ministro, un anno fa, a riferirli al parlamento. Nel solo 2009 sono state 18mila le donne che si sono dimesse «volontariamente» dal lavoro durante il primo anno di vita del bambino. Resta un dubbio. Quante di queste donne hanno lasciato l’impiego compiendo in modo volontario una scelta di vita? Quante lo hanno fatto perché impossibilitate a conciliare maternità e lavoro? E quante, invece, hanno abbandonato il posto perché costrette a firmare, al momento dell’assunzione, una lettera di dimissioni – su foglio bianco e senza data – da utilizzare nel caso in cui fossero rimaste incinte?
L’esperienza dice che la pratica delle «dimissioni in bianco» è particolarmente diffusa nelle piccole aziende, dove l’azione di controllo dei sindacati è minore. E che colpisce le fasce di lavoratrici più deboli, immigrate e precarie. La cronaca politica, invece, ricorda –o dovrebbe ricordare – che questa pratica odiosa era stata bandita nel 2007 dal governo Prodi con la legge n.188. E che il governo Berlusconi, appena entrato in carica, ha provveduto a reintrodurla
abrogando la norma attraverso una precisa iniziativa del nuovo Ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi.
Ora si tratta di riprendere l’iniziativa. Un anno fa il Pd ha presentato una proposta di legge che ripropone, estendendone gli effetti, la 188. Con due obiettivi: evitare abusi in ogni forma di recesso dal contratto di lavoro e rendere concreta, nei fatti, quella valorizzazione dell’occupazione femminile che il governo, a parole, afferma di voler tutelare.

L’Unità 05.05.11