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«Un grande come Giolitti vinto dalla ragion di Stato», intervista a Miguel Gotor di Bruno Gravagnuolo

Una statura quella di Moro paragonabile a quella di Giolitti. Entrambi tentarono di includere le masse popolari e la sinistra in un ampio disegno di allargamento politico. E Moro parlò anche di «terza fase», alludendo a una possibile democrazia dell’alternanza, ma queste sono solo ipotesi, soverchiate da altri avvenimenti…». Battute finali di una lunga conversazione con Miguel Gotor, 40 anni, romano, spagnolo per parte di padre, storico a Torino di santi, eretici e Inquisizione. Oggi tra i più accreditati storici del «caso Moro». Prima con Lettere dalla prigionia (Einaudi, 2008) poi di recente con Il memoriale della Repubblica. Scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano (Einaudi, pp. 628, euro 25,00).
Più che una tesi c’è una «mappatura», in questo testo. Svela l’intrico dei messaggi dal carcere Br, oltre alle lettere. Quello dei due pezzi di memoriale di Moro, usciti e trovati tra il 1978 e il 1990 (a via Montenevoso il secondo): entrambi censurati e rivisitati. E poi c’è l’ipotesi di un memoriale originario, mai trovato, di cui gli «excerpta» che abbiamo sono solo una parte. Attorno si dipanano, lo scenario internazionale, le trattative per la eventuale liberazione. E i tentativi, fatti e mal fatti, di scoprire la prigione del popolo. Fino alla tragica conclusione: il ritrovamento del corpo di Moro a Via Caetani il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia. Che chiude la speranza di un nuovo corso della politica italiana. Liquida il compromesso storico, e apre la fase che culmina con tangentopoli, antipolitica e bipolarismo selvaggio di oggi. Ma questa è un’altra storia.
Cominciamo da un punto chiave: Gotor che c’era in ballo con i messaggi di Moro dalla prigione? Perché li lanciava? «Molto è ormai chiaro, avendoci lavorato a lungo. C’è stato un profilo spionistico in tutto questo. Moro conosceva molte cose sensibili, che le Br gli estorcevano. Si confessa pienamente “dominato” da Cossiga. E le Br usavano certe verità contro lo stato, per destabilizzarlo. Esempio: Moro traccia un ritratto allusivo di Taviani, fondatore di Stay behind, struttura atlantica, allora segretissima. Il prigioniero voleva comunicare con tale livello per giocare un ruolo, farsi liberare probabilmente, esercitando pressione…». Gioco di pressioni, con Moro sotto ricatto che usa le carte che ha? «Sì, Moro prova a rendersi indispensabile, tirando in ballo anche il confronto tra stati e la Nato. Per sopravvivere deve comunicare, e dare qualcosa ai suoi carcerieri. Al contempo dice: tiratemi fuori, perché sono una figura chiave per la sicurezza dello stato. E lo scrive: la mia liberazione conviene allo stato». Ma così non finiva col minacciare lo stato? «Doveva concedere, per ottenere qualcosa, e centellina le rivelazioni. Di esse abbiamo una versione incompleta. E ciò è dimostrato dal fatto che gente come Pecorelli, Gelli, la terrorista Nadia Mantovani e il giornalista Scialoja, o le hanno lette o ne hanno avuto notizia». Che c’era in quelle rivelazioni non integrali o certificate in originale da far termare il Potere? «Il caso Kappler, ad esempio, con l’ufficiale, secondo le testimonianze, fatto fuggire per secondare, grazie ai tedeschi, un prestito Fmi all’Italia. La libera circolazione dei palestinesi in Italia, per evitare attentati, e con grave preoccupazione per il Mossad. Il golpe Borghese…». Moro sotto pressione lanciava messaggi e li usava per aiutare la sua liberazione, premendo sia sulle Br che sugli apparati dello stato? «È come la storia della tartaruga e dello scorpione. La tartaruga Moro traghetta lo scorpione Br, pensando alla salvezza reciproca. Ma lo scorpione alla fine, con stupore di Moro, lo uccide…». E chi si sentiva direttamente minacciato da quelle rivelazioni? «Al centro c’era la ragion di stato, la sicurezza interna e internazionale: cose non irrilevanti. Che andavano secretate di necessità. Ebbene, nei processi di allora sul golpe Borghese, i vertici dei servizi furono condannati per associazione sovversiva e non per insurrezione armata, (Luglio 1978). Fu un processo conclusosi sei anni dopo con l’assoluzione. Nel 1978 le rivelazioni di Moro avrebbero potuto interferire in tutto ciò».
Ma il fatto che alcuni avessero letto e altri no (tra i quali Gelli), e il ritrovamento a spezzoni delle carte, autorizzano dietrologie e sospetti, non le pare Gotor? «Moventi veri furono sicurezza e ragion di stato. Il che spiega perché sui testi ci siano state due mani censorie, prima nel 1978, con l’antiterrorismo che faceva capo a Dalla Chiesa. Poi, verosimilmente, con altri apparati, che hanno fatto trovare le fotocopie del manoscritto. Previa censura e rimessa nell’intercapedine a via Montenevoso. Non c’era l’originale, forse distrutto dalle Br o da altri, e dunque le fotocopie disponibili prima o poi sarebbero uscite fuori». Br che distruggono il memoriale. Perché? «Dissero che non capivano ciò che conteneva. In seguito dichiararono di averle bruciate». Ma avevano le fotocopie! «Già, o nascosero l’originale, o lo consegnarono a qualcuno. Di fatto l’originale del memorale c’era, ed è scomparso…». Dunque, molti vedevano, negoziavano e sapevano quel che ancora oggi ignoriamo. «Sì, e credo di averlo dimostrato nel mio libro». Veniamo alla trattativa su Moro: possibile, impossibile o non voluta a priori? «Non c’era incompatibilità tra strategia della fermezza in pubblico e trattativa in segreto. Il negoziato segreto ci fu, con il Vaticano al centro. Tutto finisce con la morte di Moro e la scomparsa dei Memoriali. Due dati di fatto». E il ruolo del Pci? «Ricattato e incalzato dall’estremismo, non disse no alla trattativa segreta, purché non smentisse la fermezza dello stato». Le Br volevano un successo e un riconoscimento chiaro? «Le Br volevano che la trattativa fosse pubblica e non segreta. Ciò era impossibile e su questo scoglio si giocò il destino di Moro».

L’Unità 08.05.11