attualità, memoria

"Processo al boia di Novi Sad", di Andrea Tarquini

Sandor Kepiro, ex gendarme ungherese, è l´ultimo nazista chiamato a rispondere della strage nella quale morirono più di 1200 tra ebrei, serbi e rom. A 97 anni si è presentato in aula: “Ho solo eseguito ordini”. I parenti delle vittime protestano ma per l´ultradestra è diventato un simbolo. Il 23 gennaio 1942 Budapest invase la Jugoslavia al grido “pulizia etnica e politica”
“Io ubbidii ai miei capi, non ho ucciso nessuno”, dice alla Corte tremando e con un filo di voce. All’esterno i cartelli degli attivisti: “Ma come fai a dormire tranquillo?”

Budapest. (…) È cominciato così, l´altro giorno nella bella Budapest illuminata dal sole di tarda primavera, l´ultimo processo a un presunto criminale nazista. Kepiro era il primo nella lista del centro Wiesenthal, solo le indagini del suo dirigente, Efraim Zuroff, hanno portato alla sua cattura e al processo. E oltre sessant´anni dopo la disfatta dell´Asse, è qui nella magnifica capitale sul Danubio inondata dal sole di primavera che, come in una post-Norimberga, l´Europa rifà per l´ultima volta i conti con la sua Storia di complice dell´Olocausto.
Sala austera, scranni in vecchio legno come in un´università decaduta, e per l´imputato una semplice sedia in legno con braccioli e il microfono davanti. Comincia così l´appendice di Norimberga. Kepiro arriva portato a spalla da parenti e amici, sembra non farcela a camminare. Quando entra in aula (la seduta è pubblica), una ventina di neonazisti ungheresi in uniforme scattano sull´attenti, vogliono salutarlo come il loro eroe. Fuori, attivisti della comunità ebraica lo accolgono in un altro modo: le stelle gialle sul petto, e cartelli: “Come fai a dormire tranquillo?”. Due visioni della Memoria si confrontano, nella vecchia aula numero uno di Fo Utca.
La Memoria tramandata dai rapporti dell´Intelligence service britannico è atroce. Era il 23 gennaio 1942, l´Ungheria del dittatore antisemita Miklos Horthy era dall´inizio alleata entusiasta dell´Asse. Partecipò all´aggressione contro la Jugoslavia, occupò territorio jugoslavo e lo annesse, come “parte millenaria del suolo magiaro”. C´era anche la città di Novi Sad, melting pot balcanico della convivenza tra serbi, croati, magiari, ebrei. All´attiva, efficace resistenza dell´Avnoj, l´esercito partigiano di Tito, gli occupanti ungheresi reagirono con una rappresaglia brutale. «Pulizia etnica e politica, ripulire Novi Sad da rifiuti e spazzatura», era l´ordine venuto dall´alto. Gendarmi e soldati pattugliarono ovunque, Kepiro era capitano della Csendorség. «Mi arruolai volontario per dovere patriottico, non per soldi», assicura. In aula è stanco, sbadigliante ma attento e sveglio. Sul vecchio vestito grigioverde spuntano sul bavero i distintivi e le decorazioni della Gendarmeria, guadagnati sul campo.
«Imputato, può sentirmi? Le leggerò i capi d´accusa», scandisce il giudice Varga. «Sì…sì, la sento», risponde il vecchietto alla sbarra. Con una mano si spinge il microfono auricolare nell´orecchio, con l´altra si stringe il pannolone anti-incontinenza tipico degli anziani arrivati a un´età cui le vittime di Novi Sad non giunsero. Tossisce, serra i braccioli della sedia con le mani rugose, ha un tremito ai piedi coperti da vecchie belle scarpe fatte a mano, l´ex capitano Kepiro, mentre il giudice legge i resoconti. Zsolt Falvai, il giovane pubblico ministero, ascolta impassibile. «Voi gendarmi e i militari arrivaste a Novi Sad decisi a eseguire gli ordini. Chiedeste ordini scritti ma agiste comunque», dice il giudice. «Sì, la sento”, replica Kepiro grattandosi il naso rugoso.
L´operazione iniziò all´alba. Gendarmi e soldati ungheresi rastrellarono ogni strada, avevano in tasca liste nere stilate con precisione, da Budapest e dalla Gestapo. «Io ubbidii semplicemente agli ordini, io non uccisi nessuno», assicura Kepiro parlando tremante. Testimoni lo accusano di aver fatto caricare di persona almeno 30 civili su un camion, verso il Centro di raccolta e interrogatori. Là venivano portati, anche se identificati prima dai gendarmi. Poi si proseguiva verso le rive del Danubio. «Era un inverno duro, venti o trenta gradi sotto zero», legge ancora il giudice. «Mi sente, imputato?». «Sì, a fatica», mormora il vecchietto con i distintivi nazionali sul liso abito elegante.
Vennero in corsa granatieri e artiglieri magiari ad aprire falle sul Danubio ghiacciato, come in memorabili sequenze raccontò il grande Miklos Jancso, il padre del cinema ungherese moderno, in Hideg Napok, i giorni freddi: buchi nel ghiaccio per gettare nell´acqua gelida donne, vecchi e bambini. Moribondi dopo un colpo alla nuca ma spesso ancor vivi, milleduecento e oltre.
«Io fui solo un patriota, non uccisi mai nessuno, salvai anche persone come una famiglia intera», si difende il vecchietto tremando sulla sua sedia d´imputato. Alcuni suoi seguaci, vecchi nostalgici, lo attorniano nella pausa, gli portano da bere, gli regalano vecchi giornali d´epoca della gendarmeria di Horthy. Una giovane bionda sexy dell´ultradestra, jeans aderenti, stivali tacco a spillo e t-shirt che lascia l´ombelico scoperto, si avvicina e lo carezza. Il difensore, avvocato Zsolt Zétényi, ci parla: «Lui è innocente, non ci sono prove. La gendarmeria era un´istituzione rispettata. E la Vojvodina era storicamente ungherese da secoli. E poi combattevamo contro i bolscevichi di Tito. Zuroff dovrebbe capire che il suo accanimento contro il mio cliente può danneggiare i rapporti tra ebrei e non ebrei».
L´avvocato Zétényi parla duro e chiaro, sotto la toga da seduta indossa un costume tradizionale, simbolo nazionalista come le uniformi nere che i giovani ultrà sfoggiano sui banchi del pubblico con addosso badge delle croci frecciate, della Guardia magiara e della “Resistenza nazionale magiara”. In strada quando ti riconoscono come giornalista si fanno avanti minacciosi, ti chiedono «da dove vieni a parlar male della nostra patria», e devi rispondere loro God save the Queen o God bless America per fermarli, non puoi aspettare una polizia assente.
«Lei eseguì ogni dettaglio dell´operazione», insiste il giudice. «Eseguii solo gli ordini», replica l´imputato tremando. «Poi lo stesso governo ungherese ci processò perché in cambio d´un processo sul massacro offrì trattative a Londra». Troppo tardi: armi e istruttori del Regno Unito consentirono a Tito di resistere all´Asse. Nel 1945 Budapest cadde in mano all´Armata rossa. L´Ungheria non ebbe né un Badoglio né un congiurato anti-Hitler come von Stauffenberg a Berlino. Kepiro riuscì a scappare in Austria, poi in Argentina. Nel 1996, sentendosi sicuro, tornò a Budapest. «Finalmente rividi la patria», disse. Era un vecchietto tranquillo, dicevano i vicini, «cucinava così bene il pollo alla paprika per tutti». Abitava in un appartamentino davanti a una sinagoga. Efraim Zuroff che l´ha scovato riceve ogni giorno e-mail minatorie da neonazisti amici di quei giovanotti in nero all´entrata del tribunale: «Zuroff, non mettere più piede sul sacro suolo magiaro se tieni alla tua pelle». E l´altro giorno, manifestanti dell´ultradestra hanno bruciato in piazza bandiere israeliane. La polizia del governo nazionalconservatore di Viktor Orban, sempre vigile contro media e magistrati, non ha mosso un dito contro quel rogo.

Repubblica 9.5.11

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“È giusto giudicarlo anche se è un vecchio. L’ultimo nazista”, di Efraim Zuroff

Se mai occorreva una prova di quanto fosse importante il processo al dottor Sandor Kepiro per la società ungherese contemporanea, questa è arrivata venerdì scorso, il secondo giorno del procedimento giudiziario contro il novantasettenne ex ufficiale della gendarmeria accusato di crimini di guerra commessi nel corso di uno sterminio di massa attuato dai soldati ungheresi il 23 gennaio 1942 nella città serba di Novi Sad, allora sotto occupazione ungherese. La prova è arrivata quando gli ultranazionalisti ungheresi, rispondendo all´invito di un sito web dell´estrema destra locale, si sono radunati per assicurare sostegno all´anziano “patriota” ungherese, oggi alla sbarra per il ruolo ricoperto nel massacro di almeno 1.246 abitanti di Novi Sad, ebrei, serbi e rom. Questo è il succo del dramma in corso nella corte distrettuale di Buda, dove Kepiro è il primo criminale di guerra/collaboratore locale nazista a essere processato in Ungheria dai tempi della transizione alla democrazia seguita alla caduta del comunismo.
Gli opposti schieramenti, nell´attuale dibattito politico in Ungheria, considerano questo caso in modo diametralmente opposto. Kepiro non nega di essere stato di servizio come ufficiale della gendarmeria ungherese di Novi Sad, quel giorno. Dentro di me non ho mai dubitato che Kepiro dovesse rispondere del ruolo avuto nel massacro di Novi Sad ed espiare la sua colpa. Tuttavia c´è anche chi crede che giacché egli ha 92 anni, è in ogni caso troppo tardi per fare giustizia. Non manca poi chi ritiene che in fondo il suo ruolo si sia limitato semplicemente a quello di un patriota ungherese, impegnato a svolgere un´operazione per proteggere le truppe degli occupanti dalle minacce dei partigiani o dei terroristi.
Le mie risposte a queste argomentazioni potrebbero essere di due tipi: il primo ha a che vedere con le circostanze specifiche del massacro di Novi Sad; il secondo si riferisce a tutti i casi di ex criminali di guerra nazisti o collaboratori. Nel primo caso è evidente che il massacro di Novi Sad non aveva niente a che vedere con una palese minaccia proveniente dai partigiani, in quanto in pratica tutti gli assassinati furono bambini piccoli, uomini anziani, donne e altri civili senza alcun rapporto con le attività della resistenza. Per quanto riguarda l´età di Kepiro e gli anni trascorsi da quando quel genocidio fu commesso, la penso così: 1) il tempo trascorso da allora non diminuisce in alcun modo la colpa degli assassini; 2) l´età molto avanzata non dovrebbe costituire una protezione per chiunque abbia commesso crimini così esecrabili contro civili indifesi; 3) ogni vittima dei nazisti e dei loro alleati merita che si faccia lo sforzo di cercare di individuare coloro che trasformarono in vittime uomini, donne e bambini innocenti, e che essi siano costretti a rispondere dei loro crimini; 4) Il fatto che questi criminali siano assicurati alla giustizia oggi, manda un messaggio molto potente: se si commettono crimini così esecrabili, lo sforzo di assicurare alla giustizia i responsabili proseguirà anche per molti decenni.
La vera questione, pertanto, non è l´età di Kepiro, bensì il suo attuale stato di salute fisica e mentale. Da questo punto di vista egli è sicuramente in grado di affrontare l´iter giudiziario. Se la sua salute sarà a tal punto buona da potermi citare per diffamazione (tutto sommato gli ho dato del criminale di guerra/collaboratore nazista) come per altro ha fatto, e di concedere interviste nelle quali afferma la propria innocenza, allora non esistono presupposti legittimi di ordine legale o etico per ignorare il fatto che egli stesse vivendo da colpevole impunito a Budapest.
Considerata la situazione attuale in Ungheria, e specialmente l´irritante successo elettorale alle ultime consultazioni del partito di ultra-destra Jobbik – che ha un´evidente agenda antisemita e anti-rom, e che ha espresso ufficialmente forti simpatie e nostalgia per il passato fascista dell´Ungheria nella Seconda guerra mondiale – il caso Kepiro lancia un messaggio molto potente: antisemitismo e xenofobia possono portare a violenze dalle conseguenze terribili. È questo ad aver portato decine di giovani membri della Faith Church ungherese a indossare la stella gialla e a presentarsi davanti al tribunale a sostegno di chi sta processando Kepiro il giorno dell´inizio del dibattimento. Ed è ancora questo a spiegare perché i loro antagonisti dell´estrema destra si siano precipitati a prendere le difese di Kepiro il giorno successivo, quando il futuro politico dell´Ungheria era, per così dire, sospeso.
Non possiamo che auspicare che la giustizia prevalga e che il tribunale non soltanto condanni e punisca Kepiro, ma infligga anche un colpo mortale alle forze dell´intolleranza, del razzismo e dell´antisemitismo che minacciano il futuro democratico dell´Ungheria.
Traduzione di Anna Bissanti

La Repubblica 09.05.11