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"Discorso sul merito, un tentativo", di Antonio Valentino

Eppur si muove. Merito è una parola che a sinistra, almeno fino a qualche tempo fa, non ha mai goduto grande fortuna. È stata soprattutto la sinistra europea – e soprattutto del Nord Europa, nel Regno Unito in particolare – che da più di un decennio ha saputo coniugare il termine con altri della sua cultura politica.
Oggi, anche da noi, non è più un tabù associare l’idea di merito a quello di equità. D’altra parte, nel sentire comune – al di là di certi ideologismi (in questi
giorni, a proposito delle prove INVALSI, i COBAS parlano di “valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti”: nientemeno!) – non gode della stessa
considerazione chi, nell’assolvimento dei propri compiti e delle proprie funzioni, non fa la sua parte – o la fa male o appena appena –, rispetto a chi la sua parte la fa bene e tende a farla al meglio. E sono sempre meno quelli che pensano che i primi debbano avere gli stessi riconoscimenti (economici o di carriera) dei secondi.
Finalmente, anzi, si tende a recuperare l’idea che il merito possa costituire stimolo al
miglioramento di sé e dei risultati del proprio lavoro.
La sua valenza sociale, in questa riconsiderazione, va pertanto vista nel suo legame
– da assumere e riconoscere – con lo sviluppo e la crescita del proprio ambito
lavorativo e, indirettamente, della società in cui si è inseriti: chi fa bene la sua parte,
e tende a migliorarla, contribuisce – e questo può essere evidente in modo particolare
nella Pubblica Amministrazione – al bene comune, al buon funzionamento della
vita collettiva. In tale ottica, anche l’etica pubblica – che tiene in questo modo viva
un’immagine esigente di sé – ne esce rinvigorita.

Il bandolo: tra diffidenze e ostilità
Diffidenze e ostilità nei confronti di questa nozione sono comunque ancora
abbastanza diffuse anche nel mondo della scuola, dove, soprattutto negli ultimi
tempi, viene associata – inevitabilmente – all’idea di misurazione e valutazione del
personale.
Le diffidenze e le ostilità partono soprattutto da settori del sindacalismo autonomo,
dove la stessa idea di una distribuzione diverisificata del fondo delle istituzioni (che
sostanzialmente tende a premiare impegni aggiuntivi e “intensificazione” del lavoro
scolastico) è presa di mira in nome di un egualitarismo variamente motivato.
L’idea poi di associare il riconoscimento del merito alla misurazione e valutazione di
comportamenti e/o risultati – come previsto dai recenti proveddimenti legislativi – ha

creato ulteriori motivi di contrapposizione più o meno espliciti. Che si aggiungono a
quelli “storici”, sedimentati nella memoria collettiva del nostro paese: valutazione e
premi spesso usati come strumenti di potere discrezionale e quindi fonte di ingiustizie
e discriminazioni.
Non va taciuto quindi, anche qui, se vogliamo capire come muoverci, che diffidenze
e ostilità al riguardo hanno, in generale, una loro ragion d’essere.
Il problema è rimuoverle lavorando in modo onesto ad una sorta di “accettazione
sociale” (De Anna) delle nozioni di valutazione e merito. Se, diversamente,
queste nozioni non “si coniugano” e il merito non si traduce conseguentemente in
dispositivi concreti, condivisi e trasparenti che valorizzano opportunamente risultati
e comportamenti efficaci, ogni discorso al riguardo assume altra valenza e risulta
tutt’altro che – diciamo così – propulsivo e democratico.
Una società non attenta a questo intreccio non potrà mai essere considerata una
società giusta. E l’ingiustizia, seppure riferita al nostro discorso ha certamente molto
meno della drammaticità delle grandi sofferenze della fame e della crudeltàò delle
dittature, è, a dirla con lo Scalfari, “ il solo e vero peccato del mondo”. O no?

Riconoscimento del merito e logiche meritocratiche: un matrimonio impossibile
Ma qual è la nozione di merito – a cui si associa quello di premialità – che viene
fuori, dalla recente legislazione – che, per semplificare, diciamo ‘brunettiana’ – sul
pubblico impiego?
Consideriamo l’ultimo atto legislativo, il DPCM (8.02.2011) su valutazione e
prestazioni nel mondo della scuola.

La fonte normativa delle disposizioni del DPCM è il decreto legislativo n. 150
del 27 ottobre 2009, che rinvia, sua volta, alla L. 15/2009, voluta da Brunetta per
contrastare la società dei “fannulloni” che s’annida, a suo parere, soprattutto nel
pubblico impiego.
Dobbiamo però richiamare che il tema della premialità un po’ fine a se stessa è
stato ricorrente nella politica del governo in carica. La prova più eclatante è recente:
le due sperimentazioni promosse nel novembre 2010 – fallite – che, con modalità
piuttosto improvvisate e “scarse” (in accezione scolastica), legavano il premio, come
riconoscimento del merito, alla valutazione delle ‘performance’ dei docenti.
Nel DPCM citato, dopo l’articolo sui Principi generali (n. 2) – dove valorizzazione
del merito ed erogazione dei premi hanno rilevanza sintattica e lessicale da primo
piano – si è inteso sottolineare ulteriormente la centralità di questo assunto, in un
apposito articolo (n. 3, dedicato a Merito e premi), che recita testualmente.

“Le istituzioni promuovono il merito e il miglioramento della performance
organizzativa ed individuale del personale di cui all’articolo 1, comma 1, anche

attraverso l’utilizzo di sistemi premianti selettivi, secondo logiche meritocratiche,
e valorizzano i dipendenti che conseguono le migliori performance attraverso
l’attribuzione selettiva di incentivi sia economici sia di carriera” (corsivi miei).

Come si può facilmente notare, siamo in presenza di una vera e propria ossessione
meritocratica che, esasperando senso e funzione del merito e dei premi, non aiuta
certo a collocarli al posto giusto e a comnnotarli positivamente come l’altra faccia
dell’equità e come strumento di una scuola più giusta e motivante.
Il messaggio sembra essere piuttosto: “Se la scuola italiana va male, la ragione è
nella mancanza della valutazione dei docenti e nella assenza, dentro al sistema, di una
logica meritocratica. Quindi: basta! Adesso vi valutiamo tutti e premi in esclusiva
per i “bravi” (che vi diremo in seguito chi sono). Non si possono far fallire, come
avete fatto, le sperimentazioni volute da un ministro!”.

Ora, pensare, come sembra di capire dai messaggi di Brunetta-Gelmini, che le cose
nella scuola italiana non vanno bene perché gli insegnanti non vogliono essere
valutati e che permanga il mito dell’egualitarismo, significa tralasciare un piccolo
particolare: che le politiche per istruzione e ricerca – e per il personale che ci lavora
– sono state, soprattutto in epoca berlusconiana, caotiche e dissennate e che l’unica
cosa evidente è stata favorire le scuole paritarie e tagliare in modo scriteriato risorse
finanziarie e personale alla scuola pubblica statale. Il resto – riordino e riforme, di cui
questo governo si è gloriato – appare nient’altro che uno specchietto per le allodole.
Guardate cosa è successo in questo primo anno dell’avvio della “riforma epocale”
delle scuole superiori.

Per un discorso onesto sulla scuola
Quindi la prima cosa che bisognerebbe considerare, se vogliamo fare un discorso
onesto sulla scuola, è quella di rimettere ordine nei ragionamenti correnti e fare
ognuno la propria parte, a partire però dal ministero, e definire un’agenda delle
priorità vere, reali. Non cioè demagogiche o di comodo; di quelle, tanto per
intendersi, buone per far passare in secondo piano la formazione e lo sviluppo
professionale del personale, il problema del precariato, lo sviluppo di carriera, anche
per creare appeal al lavoro docente tra i laureati migliori.
Ma è importante, nel definire l’agenda, chiarirsi le strategie di attenzione alle
caratteristiche del mondo della scuola, non per rimanerne imbrigliati, ma per capire
meglio i problemi che pongono e gli approcci migliori alla loro risoluzione (e tra
questi, in primo luogo, il coinvolgimento dell’associazionismo professionale e quello
delle scuole autonome e del sindacalismo scolastico).

La scelta di affidare riforme su questo terreno al Decreto così detto “milleproroghe”,
non è stata, da questo punto di vista, un segno di saggezza, trattandosi di interventi
che non rivestono carattere di immediata urgenza.

Anche la scelta di una delega in bianco – e vasta – ai ministeri dell’istruzione e della
Pubblica amministrazione, i cui livelli di credibilità presso le categorie interessate è
vicino allo zero, certamente non aiuta a fare salti di gioia.

Si tratta di capire se i ministeri interessati, assieme a quello dell’Economia e delle
Finanze (che è il vero motore di tutto), se intendono fare la loro parte e come.
Nella consapevolezza comunque che le scuole la loro parte devono sentirsi impegnati
a farla, perchè non si può accettare l’idea che un bene fondamentale com’è la
scuola pubblica – quello che più dovrebbe guardare al futuro del nostro paese – sia
abbandonata ad un declino senza speranza.

In una agenda delle priorità, penso che dovrebbe ben trovare posto il discorso sulla
misurazione e valutazione del lavoro – della scuola e del suo personale – come
strategie volte a sviluppare consapevolezza delle cose che vanno male o bene o così
così, nel funzionamento delle scuole, e mettere mano a interventi conseguenti.
Quindi, anche il discorso sul merito, se declinato in forme corrette, può ben
rappresentare una leva importante per il miglioramento.

Sappiamo bene che, per le ragioni sopra schematicamente richiamate, interventi
su questo terreno possono scatenare divisione e lacerazione tra il personale. E’
perciò partita che va giocata con intelligenza,
facendosi carico di prevenire
fenomeni disgreganti e di salvaguardare comunque il clima di collaborazione. Nella
consapevolezza che una scuola che funzioni ha bisogno di tutti e, in ogni caso, di una
massa critica in grado di far decollare, nelle singole scuole, proposte di innovazione
e miglioramento.

Da dove cominciare
Comunque la si pensi, una politica premiale corretta non può non presupporre un
adeguato percorso di valorizzazione della professionalità. E, dentro questo percorso,
tappe obbligate dovrebbero essere, come già indicato in una precedente riflessione,
almeno le seguenti:
1. L’individuazione di profili professionali condivisi e declinati in indicatori e descrittori
2. La definizione di profili in uscita degli studenti, declinati in termini di conoscenze, abilità, competenze
3. Lo sviluppo di una cultura valutativa che riconosca e condivida senso e valore del valutare in modo integrato processi e prodotti, progetti e contesti
4. La messa a punto di un sistema di valutazione basato sulla condivisione preventiva dei criteri e degli standard e sulla trasparenza degli atti
5. La promozione di una formazione continua dei valutatori esterni
6. La disponibilità delle risorse per progettare e implementare e validare l’impianto valutativo.

(il percorso è in buona parte mutuato da un saggio del prof. Tessaro)

Nell’immediato
E nell’immediato?
Se , a medio termine, è prioritario mettere in campo misure opportune per sviluppare
motivazione e professionalità adeguate come leve per un miglioramento non effimero
(forme e condizioni per il reclutamento, sviluppi di carriera, incentivi “estrinsici”
oltre a quelli “intrinseci” per la formazione in servizio), nell’immediato
bisognerebbe spingere il Ministero a investire le esigue disponibilità finanziarie in
motivazione e crescita della cultura professionale in genere e valutativa in particolare.
Sia rilanciando la sperimentazione e la ricerca a livello nazionale sui temi caldi
del rinnovo ordinamentale previsto dalle recenti leggi di riordino (didattica per
competenze, laboratorialità, organizzazione per dipartimenti…); sia prevedendo
premi per le scuole che dimostrino, attraverso opportune attività di misurazione
e valutazione – sulla base di protocolli nazionali condivisi -, qualità di risultati
anche ‘esportabili’.
Ritorno su questa proposta di sperimentazione perché da più parti (associazioni
professionali, scuole, sindacalismo confederale, università e ricerca, siti ‘scolastici’)
arrivano proposte analoghe e convergenti (più o meno).
Ci ritorno, con una aggiunta sulla quale potrebbe essere utile lavorare per diverse
ragioni. Riguarda proprio l’attribuzione dei ‘premi’ come si configura nell’art. 7 del
DPCM sopra richiamato, dove si tende – mi sembra – a valorizzare “ il collegamento
delle attività di misurazione e valutazione non solo al grado di raggiungimento degli
specifici obiettivi” (che in base alla proposta avanzata potrebbero essere quelli delle
sperimentazioni), ma anche alla qualità e quantità del “contributo della performance
individuale all’istituzione scolastica di appartenenza, alle competenze dimostrate ed
ai comportamenti professionali e relazionali”.
Mi sembra di cogliere in questa visione della performance un’ottica che privilegia
come oggetto valutativo il contributo dei singoli al buon funzionamento della scuola
e la qualità di “comportamenti professionali e relazionali”. Mi sembra un passo
opportuno in una direzione ragionevole. Una sorta di apertura di buon senso in un
decreto per il resto sbagliato e controproducente.
O no?

da Scuola Oggi 14.05.11