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“Poco studiosi e disillusi” L’Italia perde i giovani, di Raffaello Masci

I giovani in Italia sono sempre di meno, e questo all’incirca si sapeva. Ma sono anche il segmento sociale più fragile, emarginato, povero e disilluso della popolazione. Non è finita: l’11% degli oltre 6 milioni di under 24 (pari a circa 700 mila ragazzi) è «perduto». Sì, proprio così: non studia, non lavora, non cerca un lavoro perché si è stancato di cercarlo, e vive alla giornata.

Il quadro della condizione giovanile – secondo la relazione che ha tenuto alla Camera il direttore del Censis Giuseppe Roma – è attualmente pessimo e, se non verranno presi provvedimenti (che il Censis segnala e propone) potrà solo peggiorare.

Intanto i giovani stanno scomparendo come generazione – avverte il professor Roma -. In dieci anni ne abbiamo persi due milioni. Erano il 28% degli italiani solo 10 anni fa e sono diventati il 23%. Tra 15 anni saranno il 21%. Per contro gli over 65 sono il 20% oggi e saranno il 26% nel 2030.

Ma ciò che rende grigia la situazione dell’Italia, è che questa è anche una generazione profondamente infelice perché vive un’esclusione crescente dal mondo produttivo: insomma, non lavora. Un male comune agli altri stati comunitari, dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto la media del 20%, ma più grave da noi, che abbiamo toccato quota 28%.

Se poi andiamo a distinguere tra fasce giovanili, «la partecipazione al lavoro è bassa nell’età dell’apprendistato e del diploma (18-24 anni), ma nei successivi dieci anni la quota di chi non ha avuto accesso alla vita attiva, alla piena autonomia e responsabilità raggiunge il 35%, una quota preoccupantemente alta, che sale al 45% per le donne e al 53% nel Mezzogiorno».

Un dramma. Tant’è che l’11,2% dei 6 milioni e 730 mila giovani italiani non regge e, appunto, si perde. Un fenomeno di sfiducia diffuso anche in Europa, ma lì la media è del 3,4%, un quarto rispetto all’Italia.

Colpa della precarietà, ma anche della scuola e soprattutto della bassa crescita del Pil, che non genera occupazione. La flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro – dice il Censis – che pure «rappresenta uno strumento importante di attivazione della partecipazione giovanile», non ha prodotto occupazione di per sé, così come non l’ha prodotta neppure in altri Paesi europei che vi hanno fatto ricorso. Ha invece determinato, almeno in Italia, una precarietà strisciante e spesso sconfortante, se si considera che a tutt’oggi risultano «atipici» (cioè precari) l’85,3% dei contratti di lavoro che riguardano i giovani.

Quanto all’istruzione, potremmo sintetizzare dicendo che è troppo lunga (in Europa ci si diploma un anno prima), troppo scadente, e per di più inutile rispetto alle esigenze del mercato del lavoro. Abbiamo pochi laureati rispetto alla Ue (20,7% contro la media del 33%) ma anche il più basso tasso di occupazione tra i laureati (67% contro 84%), come dire che ne abbiamo pochi ma sono perfino troppi per le nostre esigenze.

E questo perché «la formazione universitaria si mostra poco rispondente alle esigenze del mercato». In sostanza, troppe lauree chiacchierose e farlocche producono dottori inutili e disoccupati.

Che fare di fronte a questo scenario? Il Censis suggerisce al parlamento cinque interventi: valorizzare i diplomi in senso professionalizzante, fare della laurea breve un percorso che insegni effettivamente a fare qualcosa e subito, pensare alla laurea specialistica come ad un percorso di praticantato per le professioni, sostenere l’imprenditoria giovanile detassandola per un triennio, infine, due giovani assunti per ogni cassintegrato che venga rimesso in formazione (a spese dello Stato).

La Stampa 18.05.11