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“Palla avvelenata”, di Oreste Pivetta

S’erano giurati che avrebbero cambiato strada, ma poi nella confusione ricascano nel solito vizio: l’insulto. La Lega in prima fila nella critica: dai medi dirigenti alla Salvini, ai medio grandi alla Castelli in bretelle (così era apparso in conferenza stampa subito dopo il voto, in compagnia di Calderoli, in spezzato verde secco), al sommo Bossi, che aveva deciso per tutti: «Campagna elettorale sbagliata». Alla prima prova, però, proprio Bossi non resiste alla tentazione e si lascia andare al solito sfogo, alle panzane insensate, agli insulti, ripercorrendo il percorso di sempre. «I milanesi – dice convinto dopo l’incontro con Berlusconi – non daranno la città in mano agli estremisti di sinistra. La Lega si impegnerà.
Non la lasciamo in mano ad un matto, Pisapia, che vuole riempirla di clandestini, di chiese… per musulmani, di moschee e vuole trasformarla in una zingaropoli. Non abbandoniamo Milano nelle mani di questa gente». Concludendo: «Vinceremo. Milano rinascerà ». Quindi, per rassicurare Berlusconi, minaccioso: «La base leghista sta dove sto io». Infine, cauto: «La Lega è un partito abbastanza unito.
C’è qualche paura. Stare al governo deve portare le riforme, ci deve essere un motivo». Espressioni non sempre chiare: si può dedurre che Bossi non è poi convinto che l’elettore leghista a Milano segua davvero l’ordine di votare Moratti e soprattutto conferma, esprimendo un pesantissimo giudizio politico, che la Lega starà pure al governo, ma che le riforme sono ancora una chimera.
A proposito del “matto”, dopo una pausa di alcune ore Bossi s’è corretto: «Volevo dire incompatibile. Il suo progetto è incompatibile». Ma aveva detto: “matto”. E dar del “matto” a Pisapia è, effettivamente, una novità. Finora il candidato del centrosinistra passava per terrorista o, al meglio, per estremista. Le baggianate (tipo Milano disseminata di moschee, invasa da clandestini e da zingari) sono invece nel solco della tradizione. Non solo la Padania s’era distinta, anche il Giornale di famiglia e Libero avevano battuto sullo stesso chiodo (indimenticabile una prima pagina divisa a metà tra una scena di scontri di piazza negli anni settanta e una immagine del Duomo sommerso da islamici in preghiera, con il “culo per aria”, come è solito raffigurarli il torinese Borghezio, con una doppia scritta: la Milano che piaceva a Pisapia, la Milano che vuole Pisapia).
Persino Cicchitto, che l’alfabeto della politica lo conosce per il suo passato tra Psi e P2, l’altra sera ha innestato la baionetta, disegnando scenari di guerra tra muezzin e ragazzotti dei centri sociali (i centri sociali sono una scopertapubblicitaria dell’ultima ora, qui sta il segno del cambiamento, dimenticando che a Milano i centri sociali sono luoghi di moderazione e che il temutissimo Leoncavallo è diventato spazio di mostre, di musica, di letture, persino di rassegne agro alimentari per giovani e pensionati e persino una delle poche balere o discoteche dove non si spaccia cocaina, che circola abbondante nei locali frequentati dai figliocci dei vip della politica e dello spettacolo).
Bisognerebbe capire se insulti e baggianate sono il risultato di un classico riflesso pavloviano o se sono fumo negli occhi. Bossi, per la prima volta nella sua vita politica, si vede alle prese non solo con una sconfitta, ma anche con il rischio della diserzione.
Per la prima volta il senatùr sente possibile il distacco della base leghista nei confronti di un vertice immutabile e impermeabile, i soliti, collaboratori fedeli, amici, parenti, il solito clan, che ha reso la Lega il partito più familista d’Italia, senza l’ombra di un congresso (dove si poteva manifestare il dissenso, salvo pagare con l’inevitabile espulsione), per una strategia che non ha dato nulla, se non una parvenza di federalismo.
C’è chi nella Lega rimprovera a Bossi un profilo ritagliato su quello di Berlusconi, la difesa di tutte le leggi ad personam, il ripiegamento sulle posizioni del Pdl, la rinuncia a una iniziativa autonoma. Persino i soldi di Berlusconi. S’è scolorita, s’è impantanata la Lega nella servitù a Berlusconi e se Bossi alza la voce e richiama temi classici della sua propaganda, ha in mente la seduzione della sua base più che la sconfitta di Pisapia. Insomma siamo all’appello al cuore leghista, per tenere in piedi il Carroccio, tenendo in piedi di conseguenza Berlusconi. Un’altra cambiale, forse l’ultima, perché, giusto l’altro giorno, Bossi aveva annunciato che non si sarebbe lasciato “trascinare a fondo”.
Una piccola dimostrazione: sui cartelloni elettorali, consunte le facce dei vari pretendenti, la Lega si fa viva con il manifesto verde che riprende il simbolo e l’annuncio del prossimo raduno di Pontida (il 19 giugno). Come dire: noi ci siamo e là faremo i conti.
Il Pdl è fermo. I maghi della comunicazione (tra pranoterapeuti e disk-jockey i consulenti di Letizia abbondano) hanno saputo produrre per ora un solo slogan: «Forza Milano. Non lasciamo la nostra città in mano alla sinistra» (con la variante: «Non lasciamo la città in mano alla sinistra dei centri sociali»).
Dopo tanto predicare di progetti, di riforme, di contenuti, si continua con la “paura dei comunisti”, con un linguaggio d’oltretomba, con un messaggio da barricate.
Va bene tutto per loro.

Da L’Unità