attualità, cultura

"La privatizzazione di un patrimonio", di Salvatore Settis

Contrabbandata fra le «Disposizioni urgenti per l´economia» del decreto-legge 70 del 13 maggio, prosegue l´escalation del governo contro la tutela del paesaggio e dell´ambiente, contro la Costituzione che ne è (o dovrebbe essere) garanzia suprema. La cannibalizzazione del territorio non si limita alle disposizioni “ammazza coste” che di fatto consegnano ai privati ampie e preziose porzioni di territorio che appartengono a noi tutti. Nel decreto c´è di più, e di peggio. Per esempio, l´articolo 4 porta a 70 anni la soglia «per la presunzione di interesse culturale degli immobili pubblici», che fu fissata a 50 anni dalla legge Nasi del 1902 e tale è rimasta fino al Codice Urbani del 2004. Che cosa può voler dire una differenza di vent´anni? Semplice: un edificio del 1943 come il Palazzo della Civiltà del Lavoro a Roma-Eur (il “Colosseo quadrato”), oggi presuntivamente di interesse culturale, con la nuova norma diventa disponibile per alienazioni, cartolarizzazioni, ristrutturazioni. Edifici degli anni Cinquanta potrebbero essere privatizzati senza verifiche dal “tana-libera-tutto” del nuovo decreto.
Ci vuol poco a fiutare dietro questa norma l´ombra sinistra del “federalismo demaniale”, che consegna a regioni e comuni le proprietà del demanio nazionale (cioè di noi tutti), invitando gli enti locali a “valorizzare” chiese e palazzi, cioè a venderli, anzi (come già si sta vedendo) a svenderli, privatizzando al ribasso. E infatti il comma 16 dello stesso articolo agita la bandiera del federalismo demaniale per coprire con una spolveratina di zucchero un altro boccone avvelenato. Il limite per la verifica di interesse culturale viene portato a settant´anni non solo per gli immobili pubblici, ma anche per quelli degli enti ecclesiastici ed assimilati (come il Pio Albergo Trivulzio), con conseguente certa dispersione degli arredi. Si aprono così le danze di ulteriori affari per gli amici degli amici, incrementando festeggiamenti e brindisi nelle botteghe di mercanti pronti al saccheggio.
Come scusante di altre privatizzazioni si invocò in passato la pubblica vigilanza su edifici di interesse culturale, poiché una norma già presente nella legge Bottai del 1939 e ripresa dal Codice Urbani (articolo 59) prescrive che il proprietario debba comunicare al Ministero «ogni atto che ne trasmetta in tutto o in parte la detenzione». Niente paura, il governo ha pensato anche a questo: questa norma viene semplicemente soppressa (art. 4, c. 16, nr. 4 del decreto), cestinando la fastidiosa ipotesi che le Soprintendenze, sapendo chi ha in mano un immobile storico, possano verificarne la conservazione. Potremo così sventrare impunemente palazzi del Seicento, trasformare chiese in discoteche e conventi in supermercati o condominii, senza che nessuno ci metta il naso. Già depotenziata per l´assenza di risorse e il calo di personale, la pubblica amministrazione della tutela viene in tal modo inceppata rendendo di fatto impossibile ogni vigilanza.
Il punto più basso del decreto-legge è però un altro. Nello stesso art. 4 c. 16, e sempre «per riconoscere massima attuazione al federalismo demaniale», il decreto introduce una “semplificazione” che capovolge la lettera e il senso del Codice Urbani su un punto di capitale importanza, la tutela del paesaggio. Secondo il Codice (art. 146, c. 5), il parere del Soprintendente sulle autorizzazioni paesaggistiche è “vincolante” in prima applicazione, ma diventa solo “obbligatorio” una volta che i vincoli paesistici siano stati incorporati negli strumenti urbanistici e di piano. Applicando al parere del Soprintendente il silenzio-assenso, il decreto cancella anche questa salvaguardia. Viene così calpestato il principio (sempre affermato dalla legge 241 del 1990 ad oggi) secondo cui il silenzio-assenso non può mai riguardare beni e interessi di valore costituzionale primario come il patrimonio storico-artistico e il paesaggio. Principio riaffermato dalla Corte Costituzionale, secondo cui in materia ambientale e paesaggistica «il silenzio dell´Amministrazione preposta non può aver valore di assenso» (sentenze 26 del 1996 e 404 del 1997).
La nuova norma, se non fermata in tempo, avrebbe natura eversiva, poiché capovolge la gerarchia fra un principio fondamentale della Costituzione (art. 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione») e la libertà d´impresa che l´art. 41 garantisce purché non sia «in contrasto con l´utilità sociale», nel nostro caso rappresentata dalla conoscenza, tutela e fruizione pubblica del patrimonio culturale e del paesaggio. Si darebbe così per approvata la modifica dell´art. 41 periodicamente sbandierata dal governo e appoggiata da Confindustria, ma neppur discussa dalle Camere, secondo cui «gli interventi regolatori dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali che riguardano le attività economiche e sociali si informano al controllo ex post». In questa proposta di controllo postumo, che equivarrebbe di fatto all´azzeramento di ogni controllo, è la radice del silenzio-assenso elevato a principio assoluto: in una Costituzione immaginaria, non nella Carta vigente, la sola a cui dobbiamo rigorosa fedeltà.
Scardinare i principi della tutela e dell´utilità sociale è una bomba a orologeria sganciata sulla Costituzione, in cui questi principi sono saldamente ancorati a una sapiente architettura di valori. Si legano al forte richiamo al «pieno sviluppo della personalità umana» (art. 3), coi connessi valori di libertà e di eguaglianza dei cittadini; si legano ai «diritti inviolabili dell´uomo» connessi alle «formazioni sociali dove si svolge la sua personalità» e ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2). La convergenza fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute «come fondamentale diritto dell´individuo e interesse della collettività» (art. 32) ha inoltre fondato la tutela dell´ambiente come valore costituzionale primario. In questo sistema di valori a difesa del cittadino, la priorità dell´interesse pubblico non cancella, ma limita i diritti della proprietà privata.
Le cosiddette “disposizioni urgenti per l´economia” non sono pensate in beneficio del Paese, ma di pochi affaristi pronti a spartirsi il bottino, sperperando un portafoglio proprietario, quello dei beni pubblici (come le coste e le spiagge) e degli immobili pubblici, ma anche dei paesaggi e dei monumenti soggetti a tutela, devastato da uno sgangherato “federalismo demaniale”. Esso non è, come ha detto il presidente del Veneto Zaia, la «restituzione ai legittimi proprietari» di beni indebitamente sottratti da uno Stato-ladrone. Legittimi proprietari dei beni demaniali e dei beni pubblici (come l´acqua su cui siamo chiamati ora a votare) sono tutti gli italiani, “ladro” è semmai chi ci borseggia inscenando lo spezzatino del federalismo, in nome del quale nascono anche le norme più dirompenti del recente decreto-legge. Prima che esso venga convertito in legge, c´è tempo e modo di porvi rimedio.

La Repubblica 25.05.11

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“Dal Pirellone all´Eur tolte le tutele palazzi storici a rischio svendita”, di Francesco Erbani

Un comma cambia la legge sugli edifici fatti tra il 1941 e il ´61. Da cinquanta a settant´anni. Ora dovranno avere vent´anni di più gli edifici pubblici in Italia se vogliono godere di una particolare protezione. E non essere venduti oppure manipolati. Lo stabilisce un minuscolo comma di un articolo del Decreto Sviluppo, lo sterminato provvedimento che contiene dalla moratoria nucleare alla concessione delle spiagge. E così, anche se firmato da Pier Luigi Nervi, come il Palazzo dello Sport a Roma o da Gio Ponti, come il grattacielo Pirelli, da Giancarlo De Carlo o da Luigi Figini e Gino Pollini, da Mario Ridolfi o da Franco Albini, un edificio pubblico costruito fra il 1941 e il 1961 rischia un po´ di più rispetto a prima del decreto.
La norma è complessa, scritta in un italiano aggrovigliato. Sono in allarme le soprintendenze, ma anche Italia Nostra, gli Archivi di architettura contemporanea e Docomono, l´associazione che salvaguarda edifici e complessi urbani moderni. L´attenzione è alta: chi ha infilato questo comma nel grande convoglio del decreto sembra voglia rendere più agevole la vendita di edifici che altrimenti, prima di passare di mano, dovrebbero essere sottoposti al vaglio della soprintendenza. Ma i pericoli sono anche altri: restauri poco accorti, manomissioni, fino alla demolizione.
L´articolo («Costruzione delle opere pubbliche») dovrebbe modificare il Codice dei Beni culturali e del paesaggio del 2004. La filosofia è quella di «riconoscere massima attuazione al federalismo demaniale e di semplificare i procedimenti amministrativi relativi a interventi edilizi». Deregulation spinta, dunque. Nell´articolo si aggiunge che gli snellimenti sono possibili nei comuni che si adeguano ai piani paesaggistici regionali. Norma equivoca, fanno notare in alcune soprintendenze: i piani paesaggistici c´entrano poco con questo genere di edifici. Inoltre, si aggiunge, la separazione fra beni pubblici e privati è culturalmente poco sensata e si spiega solo perché rende più agevole la vendita dei primi.
Una parte del migliore patrimonio novecentesco potrebbe essere meno salvaguardato. Qualche anno fa un gruppo coordinato dallo storico dell´architettura Piero Ostilio Rossi propose una schedatura degli edifici romani novecenteschi di pregio. Molti quelli realizzati proprio fra il ´41 e il ´61: il Palazzo dei Congressi dell´Eur di Adalberto Libera, il Palazzo che ospita la Fao, il Monumento delle Fosse Ardeatine, la Stazione Termini e poi il Palazzo dello Sport, il Palazzetto dello Sport e lo Stadio Flaminio di Nervi. Anche il ministero ha in corso un censimento: dal dopoguerra al 2005 sono quasi 300 in Italia gli edifici di rilevante valore. Spiega Carlo Olmo, professore a Torino: «L´architettura italiana fra la fine della guerra e gli anni Cinquanta è un riferimento per altri paesi». Il Novecento è il secolo nel quale è sorto dall´80 al 90 per cento di tutto quel che oggi vediamo costruito. E nel secondo dopoguerra la speculazione ha dettato le regole per la crescita delle città e ha prodotto pessime architetture. Ma, sottolinea Olmo, in quei vent´anni si realizzano edifici e quartieri pubblici «che sono una maglia fondamentale nel tessuto cittadino e la cui manomissione produce squilibri nell´organismo urbano». Singoli edifici, dunque, scuole, stazioni, ponti, ma anche edilizia popolare come il Qt8 a Milano di Piero Bottoni o gli interventi dell´Ina-Casa (350 mila alloggi dal 1949 al 1963), dal Tiburtino a Roma (dove lavorarono Ridolfi, Carlo Aymonino, Carlo Melograni, Ludovico Quaroni e altri) alla Falchera di Torino (Giovanni Astengo) a Cesate (Albini, Ignazio Gardella e i BBPR di Belgiojoso, Peressutti e Rogers), dove oltre alle case ci sono chiese, asili e altri manufatti pubblici. Su buona parte di questi edifici la tutela sarà da ora più debole.

La Repubblica 25.05.11