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"Pensioni, disuguaglianza record dirigenti al top e precari in miseria", di Valentina Conte

La distanza che separa un pilota da un co.co.co o co.co.pro qualunque, se misurata dall´entità della sua pensione, è davvero incolmabile: 3.500 euro contro 120 o poco più. Lordi, al mese. Raggelante, poi, se il confronto è con un dirigente: 3.800 euro contro i soliti 120. Un rapporto quasi di uno a 40.
Si dirà: vuoi mettere, dirigente contro call center, assistente di volo contro segretaria. Categorie, professioni, qualifiche e stipendi diversi. Vero, ma la questione non si liquida su due piedi. Tanto più che il numero degli assegni pensionistici erogati ai precari aumentano di anno in anno a ritmi sostenuti. Tra il 2009 e il 2010, ad esempio, sono cresciuti del 17%. Più di tutte le altre categorie. E nel futuro diventeranno una parte molto consistente della spesa complessiva. Perché è lì che si raggrumano gli incerti, i saltimbanchi del lavoro. E´ lì che galleggiano anche i professionisti degli anni duemila. Ingegneri, architetti, ricercatori. Oggi giovani “a progetto”. Domani anziani senza rete.
I dati sono scritti nero su bianco. Li riporta l´Inps nel Rapporto annuale relativo al 2010. A guidare con serenità la classifica delle pensioni sono i dirigenti (3.788 euro in media al mese), quasi raggiunti da piloti e assistenti di volo (3.487 euro). Ben a distanza tutti gli altri. Sfiorano i 2 mila euro i telefonici, in buona compagnia con chi lavorava per le società elettriche (1.879 euro). Gli ex impiegati dei trasporti e delle ferrovie si attestano sui 1.500 euro.
Tutti gli altri crollano sotto gli 800 euro. Tra questi la categoria più numerosa, quella dei lavoratori dipendenti, quasi nove milioni e mezzo di persone, che si accontentano di 861 euro. Sempre meglio dei commercianti (707 euro), degli artigiani e agricoltori (2,7 milioni di pensionati a 611 euro) e dei preti (574 euro). E soprattutto mai così male come i co.co.co.: 1.570 euro l´anno, 121 euro al mese, 96 euro in media alle donne, 130 euro agli uomini. Per ora si tratta di 245 mila persone. Ma crescono.
L´Inps spiega che nella voce “gestioni separate” confluiscono «prevalentemente le pensioni supplementari», ovvero le seconde pensioni, più piccole e non ricongiunte con le principali, disciplinate da una legge del 1962. Evidenza che non mitiga il sintomo e dunque l´allarme. Chiaramente percepito, visto che l´aliquota obbligatoria da versare in questa gestione è passata gradualmente dal 10% del 1996 al 26,72% attuale, sempre più vicina a quella della gestione principale Inps.
In tema di pensioni, un´altra distanza ormai incancrenita, perché immutata da almeno cinque anni, è quella tra le aree del Paese. Le pensioni erogate al Sud, scrive l´Istat nel Rapporto annuale, sono più basse di quelle del Nord-ovest di quasi un quinto, ovvero del 19,5% e del 12,1% rispetto alla media nazionale. Per fare un esempio, nel 2009 un pensionato meridionale prendeva in media 9.501 euro lordi l´anno, una cifra di gran lunga inferiore se paragonata agli assegni erogati al Nord-ovest (11.805 euro), Nord-est (10.959 euro) e Centro (11.317 euro). E, ovviamente, alla media nazionale pari a 10.808 euro.
In cinque anni, dunque, nulla è cambiato nei redditi degli anziani a Napoli, Palermo, Bari e Cagliari. Un divario costante con Torino e Milano, quello monitorato dall´Istat tra il 2004 e il 2009, mantenuto tale dalla crescita, che pur c´è stata, dell´importo delle pensioni. Un aumento in linea al Sud (+18,8%) con quello che succedeva nel resto del Paese (+19%). L´assegno del 2009, in pratica, era più ricco di quello del 2004, come per tutti gli italiani. Ma più basso in Puglia e Sicilia di quanto incassato in Piemonte e Lombardia.
Nel frattempo, è lievitata la quota di pensioni assistenziali, tra cui invalidità civile e assegni sociali, erogati al Sud: sono il 44,2% rispetto al 43,8% del 2004. Non così l´importo medio annuo: 4.656 euro nel Mezzogiorno contro i 4.810 euro del Nord-ovest e i 4.730 euro della media nazionale.

La Repubblica 30.05.11

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Camusso al governo “Pensioni da fame”, di Roberto Mania

Il Rapporto annuale dell´Inps per il 2010 fa emergere un quadro delle pensioni italiane con fortissime disparità. Dai 3.800 euro mensili dei dirigenti si precipita ai cento euro dei co. co.co. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, va all´attacco del governo e chiede di mettere mano al sistema: basta con le pensioni da fame. «Ai futuri pensionati si deve garantire almeno il 60 per cento dell´ultima retribuzione». «Devo dire che da questo governo mi aspetto qualunque cosa, ma non credo che ci siano le condizioni per altri tagli allo stato sociale oltre quelli che già si sono fatti. Piuttosto penso che si stia facendo strada, esplicitamente nella Confindustria, più nascosta in alcuni settori del governo, un´idea di privatizzazione dello stato sociale. È la stessa logica che porta l´acqua pubblica nelle mani dei privati. C´è da essere preoccupati». Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, risponde così alla domanda se ritenga che il cantiere della previdenza possa riaprirsi. Di fronte ai dati dell´ultimo Rapporto dell´Inps, il leader della Cgil pensa che si debba tornare al progetto «di garantire ai futuri pensionati almeno il 60 per cento dell´ultima retribuzione». Per evitare di «costruire un paese di poveri», aggiunge.
Ma questo aumenterebbe la spesa pubblica, mentre tutti i governi europei sono impegnati a ridurla per rientrare nei nuovi vincoli comunitari.
«Nel biennio 2008-2009 abbiamo perso sei punti di Pil. Che avranno un effetto secco sulle future pensioni calcolate con il metodo contributivo. Un effetto aggravato dall´inasprimento dei coefficienti di trasformazione voluti dal governo. Sulle pensioni peserà anche il basso livello delle retribuzioni, che si accentua proprio nei settori dove sono più presenti i giovani, penso al commercio, all´area della grande distribuzione a quella dell´assistenza. Aggiungo, poi, che è l´Istat ad avere segnalato la crescita del part time involontario. Infine la discontinuità dei rapporti di lavoro avrà conseguenze significative sulle pensioni calcolate con il metodo contributivo».
Bisognerebbe abbandonare il sistema contributivo?
«No, non dico questo. Dico che non possiamo immaginare un paese con un terzo della popolazione, cioè i pensionati, che sia a rischio di povertà. Già oggi otto pensioni su dieci non arrivano a mille euro. Questo è un paese che sta rinunciando a progettare il suo futuro».
Che l´importo della pensione pubblica fosse destinato a scendere era chiaro fin quando venne varata, con il totale consenso dei sindacati, la riforma Dini. Per questo sono stati poi costituiti i fondi per la previdenza complementare. La realtà è che solo il 23 per cento della popolazione potenziale vi ha aderito. Perché, secondo lei?
«Il dato medio è quello. Il punto, però, è che nei settori dove è maggiore la frantumazione del lavoro l´adesione crolla vertiginosamente. Penso all´artigianato. Le piccole imprese continuano a utilizzare il trattamento di fine rapporto (il Tfr) per autofinanziarsi, come fosse roba loro e non retribuzione differita. Scoraggiano i lavoratori ad aderire ai fondi e, come è noto, per i sindacalisti non è facile entrare in quelle aziende. Morale: su quattro milioni di addetti del settore, hanno aderito al fondo solo in 11 mila. Per garantire la prestazione della pensione complementare abbiamo dovuto far confluire il fondo artigiani in quello del commercio. È questa una delle tante contraddizioni dei nostri imprenditori: da una parte dicono che serve la previdenza integrativa, dall´altra continuano a usare il Tfr al posto del credito bancario. Ma anche per questa via si affaccia l´idea di privatizzare un pezzo di stato sociale: al posto dei fondi negoziali, le assicurazioni».
Di certo abbiamo un welfare sbilanciato sulla spesa pensionistica. Come può pensare che funzioni quando quasi il 70 per cento della spesa sociale va sotto la voce pensioni?
«Mi limito a ricordarle che le pensioni, per quanto basse, sono quelle che hanno garantito la coesione sociale in questo paese. Perché sono i pensionati nelle famiglie a integrare i redditi dei giovani precari, a offrire loro una casa, a fare da baby sitter».
Questo è anche lo stato sociale informale che vede protagoniste le donne. Dove sono finiti secondo lei i miliardi di risparmi dovuti all´innalzamento dell´età pensionabile delle donne nel pubblico impiego? Non dovevano servire per costruire più asili?
«Ho un sospetto: sono finiti nella spesa corrente. A conferma che questo governo non ha alcuna idea di politica sociale se non quella dei tagli».
Perché sostenete che dopo il contratto del commercio, che la Cgil non ha firmato, all´Inps mancheranno due miliardi?
«Perché è così. L´indennità di malattia non sarà più pagata attraverso il fondo malattia dell´Inps, il commerciante la darà direttamente al lavoratore. Ma c´è di più: siamo sicuri che il piccolo commerciante potrà pagare l´indennità per periodi lunghi di malattia? La rottura dei meccanismi di solidarietà espone sempre i più deboli, lavoratori e imprenditori».

La Repubblica 30.05.11