attualità, politica italiana

"L´ottimismo dell´intelligenza", di Barbara Spinelli

Se non ci fossero state persone come Giuliano Pisapia e Luigi de Magistris, nelle due città malate d´Italia che sono Milano e Napoli, probabilmente non avremmo assistito in diretta alle fine politica di Berlusconi e della sua inaudita magia.
Molti elementi hanno contato, e tra questi sicuramente la coalizione divenuta un garbuglio, la cocciuta scommessa di Gianfranco Fini su una nuova destra legalitaria, la smisurata insipienza di un premier che s´aggrappa follemente a Barack Obama come Michele Sindona s´aggrappò negli anni ´70 agli amici americani.
Ma il vento più impetuoso viene da altrove, viene da dentro gli animi, è una forza che ha travolto tutti i copioni consueti. Eravamo abituati a dire, con Gramsci, che quel che urge è il pessimismo della ragione e l´ottimismo della volontà. Non è vero. Quel che ha vinto, a Milano e Napoli, è l´ottimismo della ragione: lo sguardo chiaro, veggente, sui tanti segnali degli ultimi anni. Il non possumus di Fini, le onde viola, la manifestazione delle donne il 13 febbraio, irradiatasi da Internet come virus (“Bastava non votarlo”, diceva un cartello: è stato preso sul serio). Qualche giorno dopo, al festival di San Remo, il televoto scelse Roberto Vecchioni e anche quello fu un segno.
Alle nostre spalle, ci sono tanti sassolini bianchi che hanno finito col mostrare la via, come nella fiaba di Grimm. Li abbiamo messi noi, cittadini-elettori. Il castello che sembrava granitico, è il popolo sovrano che l´abbatte; lo stesso popolo che il premier usa per affermare un potere illimitato. Un´immensa e tranquilla fiducia di potercela fare, un´intelligenza-conoscenza dell´Italia reale, una voglia di provare alleanze interamente centrate sull´etica pubblica e la legalità, un´estraneità profonda ai partiti dell´opposizione, alle loro élite: questi gli ingredienti che hanno fatto lievitare il pane che abbiamo mangiato lunedì. E il senso che sì, più di Gramsci valeva Pessoa: «Tutto vale la pena, se l´anima non è piccola». Chi ha ottimismo della volontà, lasciando che la ragione si deprima e inebetisca, altro non gli resta che la volontà di potenza.
L´ottimismo dell´intelligenza apre lo sguardo ai segni – rendendo visibile l´invisibile – entra in sintonia con le mutazioni di una società, resuscita parole diradatesi per malinconia. È possibile ricostruire una Milano accogliente, capitale morale. È possibile strappare il Sud a mafia, ‘ndrangheta, camorra, corona unita, cominciando dalla città-Babilonia che è Napoli. Non ci fa paura la paura. Luigi Bersani ha avuto la saggezza (dopo due sconfitte dei candidati Pd: alle primarie milanesi e nel primo turno a Napoli) di presentire che questa primavera italiana lui doveva assecondarla, aiutarla. Come scrive nel suo blog Pietro Ancona, già segretario della Cgil, Bersani s´è mostrato capace di buon senso: «Ha preferito vincere senza essere il protagonista principale, piuttosto che perdere essendolo». Anche questo è ottimismo dell´intelligenza.
Non siamo più invischiati in un Pd che corre da solo, che fa cadere Prodi presumendo di liberarsi della zavorra di Antonio Di Pietro o della sinistra radicale. Che per anni ha avuto come scopo essenziale quello di esser battezzato «riformista» dal finto sacerdote Berlusconi. Pisapia, Vendola, De Magistris guardano al potere senza più complessi: aspirano a prenderlo, con fiducia in sé, nel proprio ragionare, negli elettori. Gli stessi vizi della sinistra radicale (la riluttanza a governare, a pagare il prezzo che questo comporta) si fanno obsoleti e inutili.
Crederci, non crederci: questo era il dilemma, se parafrasiamo Amleto. «Se sia più nobile sopportare gli oltraggi, i sassi, i dardi dell´iniqua fortuna, o prender l´armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli». Sulla bilancia è stata la forza trasformatrice della verità a pesare: forza malinconica forse – disvelatrice di fatti e misfatti – ma non pessimista. I veri giustizialisti sono stati in questi anni coloro che più esecravano i magistrati. Fino a quando non si è condannati in terzo grado, tutto è permesso: gli insulti, le più immorali condotte pubbliche. Gli elettori delle amministrative restituiscono alla politica la sua vera ambizione: quella di agire e correggersi prima che intervenga il magistrato. Quella di non contar frottole, quando la crisi infuria.
C´è infine la crisi, che cambia il vento: un po´ come in America quando vinse Obama. I candidati dell´opposizione non si sono accontentati più di dire: «Noi italiani siamo fatti così, c´è poco da fare». C´è invece, a cominciare da sé. Basta legger con cura i dati Istat sull´economia che barcolla, e la chimera dell´Italia immunizzata evapora. Basta scoprire come l´economia di intere regioni stagni, perché pervasa dall´illegalità, dallo sprezzo dello Stato. È molto significativo che a Napoli sia un uomo di legge («malato di protagonismo», dicevano le sinistre fino a poco tempo fa) ad aver conquistato uno straordinario 65,4 per cento. Tutto quello che sappiamo dei disastri economici causati dalle mafie, o del peso ricattatorio esercitato a Napoli e Roma da persone come Cosentino, gli ottimisti dell´intelligenza l´hanno appreso da indagini giudiziarie preziose. I magistrati sono per Berlusconi brigatisti, cancri, uomini antropologicamente diversi. Ora è antropologicamente diversa gran parte d´Italia. Sarà interessante vedere se anch´essa sarà insultata: come la Consulta, la Costituzione, il Quirinale, la magistratura, l´informazione indipendente.
Nel berlusconiano impero dei segni, tanti s´erano installati: vassalli riottosi, ma pur sempre vassalli. Anche il Pd, quando faceva mancare i propri voti alla Camera; anche Casini, quando approvava la legge liberticida sul fine vita. Scoraggiamento e pessimismo li inchiodavano dov´erano. Un´altra Italia ha fatto scoppiare la bolla dei segni, con la spilla dei buoni argomenti, la mitezza dei candidati, anche con lo scherno: c´è stato un momento, fra i due turni, in cui ha fatto irruzione l´ironia e il banco di Berlusconi è saltato. È stato quando un utente twitter ha lanciato un appello alla Moratti: «Il quartiere Sucate dice no alla moschea abusiva in via Giandomenico Puppa! Sindaco rispondi!”. Al che il sindaco: «Nessuna tolleranza per le moschee abusive!». Era una bufala, né Sucate né Puppa esistono. Così come non esistono l´Italia berlusconiana, gli annunci miracolosi del premier. Un´esilarante fandonia ha scacciato la fandonia sempre meno allegra, sempre più cupa, del leader.
Prima o poi la ribellione doveva venire, connettersi al mondo reale. Un mondo dove i giovani, stando all´Istat, sono derubati di futuro: con tassi di disoccupazione superiori di 3,7 punti rispetto alla media europea; con un´emigrazione all´estero in aumento, perché il merito da noi non conta più. Quasi la metà dei giovani occupati è precaria. Quasi un quarto è Neet (acronimo inglese di Not in Education, Employment or Training).
Ora si tratta di vedere cosa l´opposizione farà: come costruirà, dopo aver distrutto. Come si mobiliterà per il referendum su acqua, legittimo impedimento (legalità), nucleare. È un´impresa colossale, dopo anni di crisi negata. Il 24 maggio, la Corte dei Conti ha ammonito: per raggiungere un rapporto fra debito pubblico e Pil pari al 60% (per evitare la bancarotta greca, come chiesto dall´Europa), l´Italia dovrà ridurre il debito del 3% all´anno, pari oggi a circa 46 miliardi.
Per Berlusconi, è missione impossibile: a causa del governo infermo, e del populismo. Ma sinistra e altri oppositori ne sono capaci, dopo aver sostenuto in questi anni che Prodi cadde per colpa del rigore? Sono capaci di dire che le tasse non vanno diminuite, che nell´economia-mondo la crescita sarà debole, i sacrifici non comprimibili, l´equità tanto più indispensabile? La strada è impervia. Ma l´Italia forse ascolta oggi parole di verità, se chi le dice avrà l´ottimismo dell´intelligenza, oltre a quello della volontà.

La Repubblica 01.06.11

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“In fila per salutare il capo dello Stato Berlusconi snobbato al ricevimento”, di Liana Milella

E i leader pd esultano: “Che goduria certe facce”. Scherzano Alfano e il capo di Anm Palamara: “Ci sfideremo a una partita di calcio”. In ottocento per stringere la mano a Napolitano, poche signore attorno al premier. Nella grande festa di Napolitano ora lui è costretto a giocare la parte della comparsa. Non gli si addice, non è abituato. È già fosco quando entra, volutamente, dall´ingresso meno accorsato, quello che da via XX settembre dà direttamente sui giardini del Quirinale. Lo vedi subito se Berlusconi è di cattivo umore – e ieri il suo era davvero pessimo – perché incassa più del solito la testa nelle spalle, cammina senza guardare nessuno, quasi corre. Tant´è che, tra alte siepi, compie le decine di metri che lo separano dalla palazzina del presidente d´un balzo. Resta lì dentro, dove ci sono già Napolitano, Fini, Schifani, solo pochissimi minuti. Poi eccolo fuori, già in un angolo. E lì resterà per 90 minuti, quelli che trascorre sul Colle. Niente passeggiata tra le aiuole, a stringer mani e distribuire sorrisi, come aveva fatto l´anno scorso. I vincitori – Bersani, D´Alema, Veltroni, Prodi, la Finocchiaro, Fassino, Franceschini, Renzi, Bertinotti con Lella – non li vuole neppure sfiorare. Scende i gradini della palazzina per una sola stretta di mano, quella al capo della banda musicale. Quando risale si guarda bene dal mettersi al centro, dove c´è Gianfranco Fini, con compagna e figlia tutte e due in rosso. Elisabetta Tulliani stringe la mano di Carolina, il padre la accarezza e canta visibilmente tutto l´inno di Mameli. Berlusconi neppure applaude.
Ma il peggio deve ancora venire. Si materializza di lì a poco. Quando il premier, mai lasciato da Gianni Letta, parla con il deputato europeo Mario Mauro. In quei tre o quattro minuti si forma una fila lunghissima per salutare Napolitano e la moglie Clio. Per lui, invece, tre o quattro persone. Attempate signore dai tacchi vertiginosi. Stimano le fonti ufficiose del Colle che a stringere la mano del presidente siano state alcune centinaia di persone. Chi butta lì addirittura 800. È la cifra di una coda che dura quasi due ore. Napolitano, a un certo punto, è costretto perfino a sedersi.
Questo succede quando la sinistra sbaraglia il campo e vince. Berlusconi confonde le acque, per due volte parla a lungo con i giornalisti, butta sui candidati la colpa della sconfitta. Annuncia le riforme, ma singolarmente tace sulla giustizia. Davanti ha decine di toghe, tutti quelli del Csm con il vice presidente Michele Vietti, quei «comunisti» della Consulta, e poi Luca Palamara, il battagliero presidente dell´Anm, anche lui in fila per Napolitano con cui parla per vari minuti («Che ci siamo detti? Ovviamente top secret»). Potrebbe rilanciarla la sua vendetta sulle toghe. Invece sfuma, quando glielo si chiede risponde distratto con un «ma sì, la faremo, è già in Parlamento». Come mormorano nel suo staff, in queste ore, è grande la preoccupazione per la sentenza sul lodo Mondadori. Se ne va, senza aver rivolto la parola a Tremonti.
Per un Berlusconi in ombra, la sinistra non nasconde il suo entusiasmo. A D´Alema strappano una battuta sul Cavaliere: «Errore di comunicazione sulle amministrative? Forse voleva dire che non gli hanno comunicato bene i risultati…». La Finocchiaro: «Hanno presso una mazzata? Io sono una ragazza di buon cuore e indulgente…». Franceschini: «Vedere le facce di quelli della destra oggi è davvero una soddisfazione».
In effetti hanno l´aria sbandata. Cicchitto con Gasparri. La Russa che evita accuratamente di incrociare il Guardasigilli Angelino Alfano. La moglie elegantissima al fianco, lui non perde il gusto della battuta. Si ferma con Palamara, gli fa i complimenti per la linea, lo sfida a una partita di calcio governo contro toghe. Poi, ironico: «Preparati, perché per due anni non faremo che parlare di riforma della giustizia».
La curiosità del party è quella sciarpa rossa di Gianni Pennacchi, lo scrittore che con Fli ha tentato la sfida di Latina. La porta quando arriva, se la tiene addosso fino alla fine. Per lui è la prima volta, non nasconde la commozione: «Quando hanno suonato l´inno mi sono commosso. Napolitano è un grande, saggio, autorevole presidente».

La Repubblica 01.0.11