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"L’eredità di Draghi", di Franco Mosconi

La più europea delle istituzioni italiane, la Banca d’Italia, ha l’altro ieri idealmente salutato chi ne è alla guida da cinque anni e mezzo, Mario Draghi. Egli ha voluto esprimere il commosso tributo della Banca tutta a Carlo Azeglio Ciampi, autentico maestro per tanti funzionari che a palazzo Koch lavorano. E maestro per molti di loro è stato il compianto Tommaso Padoa-Schioppa, ricordato dal Governatore con parole molto significative.
Che Banca d’Italia sarà senza Mario Draghi? Possiamo scorgere due eredità: la prima riguardante le persone, la seconda le idee e le politiche pubbliche.
Le grandi istituzioni si contraddistinguono per la continuità che sanno imprimere alla loro azione, pur nel naturale succedersi delle leadership.
Va proprio a merito di Draghi l’aver rinnovato profondamente in questi anni il Direttorio, ove sono entrate personalità di grande esperienza – maturata sia in Banca sia a livello internazionale – come il direttore generale Fabrizio Saccomanni e i vice direttori Anna Maria Tarantola (la prima donna a rivestire questo ruolo), Ignazio Visco e Giovanni Carosio. L’alta dirigenza della Banca d’Italia è perfettamente idonea a succedergli.
La seconda eredità del quinquennio di Draghi riguarda le riforme sollecitate per sboccare questo nostro immobile paese. È stato Draghi stesso a utilizzare l’ultima cartella e mezzo delle Considerazioni finali per affermare: «La crescita economica del nostro paese è stata il mio punto fisso».
Semplificando molto, c’è un piano macroeconomico della storia, che considera la stabilità – così cara alla cultura tedesca – un prerequisito per una crescita economica duratura e non effimera.
L’esempio dell’Italia dei primi anni ’90 è giustamente citato; non va dimenticato infatti il ruolo svolto da Draghi come direttore generale del Tesoro con tutti i governi della repubblica (Amato, Ciampi e Prodi) che seppero agganciare l’Italia e la lira al grande disegno della moneta comune europea. Tornando all’oggi, egli ha sottolineato con forza come sia necessario «riportare sotto controllo i bilanci pubblici» attribuendone il compito innanzitutto alle «politiche nazionali».
Ci sarà molto da fare nell’Italia dei prossimi anni: una correzione della spesa primaria corrente di oltre il 5 per cento reale nel 2012-14, evitando tagli uniformi a tutte le voci (quelli che invece questo governo ha teorizzato e perseguito), ponendosi altresì l’obiettivo di ridurre – scrive Draghi – «in misura significativa le aliquote, elevate, sui redditi dei lavoratori e delle imprese ». Infine, il compito della Bce è illustrato con poche, chiare parole: «Assicurare la stabilità dei prezzi nel medio periodo; la stabilità monetaria è il suo fondamentale contributo alla crescita».
Il piano microeconomico della storia ha essenzialmente un nome: produttività; o, meglio, una produttività che “ristagna” (è infatti ferma del tutto da dieci anni). Questione che, a sua volta, ne evoca altre due: il capitale umano di qualità e le imprese innovative.
Dei nostri giovani talenti, delle riforme all’istruzione e all’università, e della necessità di un più forte riconoscimento del merito il Governatore parlò già nelle sue prime Considerazioni finali nel 2006; del rischio di perdere o sprecare una generazione – quella dei contratti atipici, che coinvolgono milioni di italiani – nel biennio seguito alla grande crisi (2009 e 2010).
Martedì si è soffermato sulla necessità per il paese di darsi un nuovo «sistema di protezione sociale», di taglio universalistico per promuovere le chance di vita e lavoro di tutti i cittadini. Ha indicato «la scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro» come «un fattore cruciale di debolezza del sistema».
L’altra costante delle Considerazioni di questi cinque anni è stata la struttura produttiva italiana, sottoposta alla duplice sfida della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica. C’è stata indubbiamente una ristrutturazione delle imprese negli anni dell’euro ma è rimasta, per così dire, un’incompiuta: le nostre imprese restano mediamente più piccole di quelle di Eurolandia; il balzo da una classe dimensionale all’altra è raro; le tantissime imprese familiari hanno una gestione che rimane troppo spesso «nel chiuso della famiglia proprietaria». È dunque una ristrutturazione che va completata, e dal 2006 a martedì scorso numerosi sono stati gli spunti per l’azione (giustizia civile, concorrenza, infrastrutture, etc.) offerti a coloro che hanno avuto e hanno responsabilità di governo.
Guardando a questi cinque anni ci domandiamo: si è trattato di “prediche inutili” come quelle del suo “illustre predecessore”, Luigi Einaudi? Il rischio, paventato dallo stesso Draghi, purtroppo c’è. Ma il paese sta capendo che è arrivato il tempo di ristabilire un rapporto con la (dura) realtà delle cose. E sempre da Einaudi ci viene quel «conoscere per deliberare», stella polare per chi ambisce a essere classe dirigente.

da Europa Quotidiano 02.06.11