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"Hanno vinto le primarie", di Mario Rodriguez

Anche dal punto di vista della comunicazione questa campagna elettorale ci dà alcune indicazioni importanti. La prima è che conta più quello che le persone si dicono che quello che i candidati, i loro dirigenti politici che li sostengono, dicono di sé. In pratica contano più le conversazioni, le relazioni personali, che gli slogan, i manifesti. Anzi, questi strumenti servono perché stimolano relazioni personali.
Certo, contano anche gli impulsi che giungono dal sistema dell’informazione, guai a metterlo in ombra. Ma questi diventano chiacchiera, vita quotidiana, si impastano con le esperienze e creano i sentimenti diffusi, il clima d’opinione.
Per questo le conversazioni in rete, i social network, hanno avuto importanza e ne avranno sempre di più. Ma l’hanno avuta quando è scattato il marketing virale spontaneo, la scintilla di Sucate, non quando la rete è stata usata come una bacheca sulla quale affiggere un volantino digitale.
In secondo luogo, le scelte di voto, avendo a che fare con valori e identità, sono frutto di lente stratificazioni; la classica goccia che riempie un bicchiere e per molto tempo può anche non dare effetti chiaramente visibili ma che, a un certo punto, trabocca. Quindi hanno avuto più efficacia i comportamenti autentici, credibili e continuati nel tempo che i colpi di teatro. Più le persone che andavano a distribuire i volantini a presidiare le postazioni che non i contenuti stessi di quei volantini.
Più la convinzione e la motivazione dei “sostenitori” che il “sostenuto”. Perché la forza di un “leader” sta proprio nel tener insieme i “follower”, i seguaci. La coesione.
In terzo luogo, ancora una volta, la personalizzazione, la coerenza tra persona e comportamenti, la credibilità, hanno svolto un ruolo cruciale nella costruzione di significati ben oltre le appartenenze organizzative o le etichette appiccicate dai media.
Come non riconoscere nei comportamenti di tutti i candidati (quelli espliciti come Fassino, Pisapia, De Magistris, Moratti, Lettieri, e quelli impliciti come Berlusconi, Santanchè, La Russa) un ruolo essenziale nel dare senso agli avvenimenti.
Infine il ruolo dell’esperienza, del vivere, dell’agire.
Ci si forma un’opinione, una motivazione, la si cambia (quelle poche ma cruciali volte in cui si cambia), vivendo esperienze. E proprio nell’esperienza collettiva fatta a Milano in tre momenti essenziali sta la chiave del successo.
Prima di tutto le primarie. Una scelta che ha fatto sentire parte di un processo di decisione un notevole numero di persone fino a quel punto sconfitte, scontente, insoddisfatte. Lasciamo stare se fosse il caso che il Pd avesse un suo candidato.
Le primarie sono state un percorso cruciale di legittimazione della candidatura. Ma la chiave di volta per creare un clima positivo è stata (ecco il secondo elemento) la gestione della vittoria di Pisapia (con un suo contributo essenziale nonostante le spinte degli apparati partitici) e soprattutto la reazione molto positiva degli sconfitti Boeri e Onida (non era scontato). Le primarie di Milano, e ancora di più quelle torinesi, alla fine sono apparse come qualcosa di fisiologico, una competizione collaborativa non distruttiva.
E questa è una lezione valida in generale: non vivere le primarie come l’ultima ratio di un gruppo dirigente che non riesce a scegliere, cioè l’ufficializzazione di un limite, ma come l’incarnazione di una volontà di rappresentare meglio, di dare autorevolezza ad una scelta adatta ad una società secolarizzata e post-ideologica.
Il terzo momento è stato il candidato, Giuliano Pisapia, le sue caratteristiche che hanno saputo dare un tono generale ai comportamenti diffusi e che hanno creato una palpabile e crescente differenza rispetto agli avversari. Merito a lui e a chi a vario titolo è stato al suo fianco.
Forse senza le tante delusioni prodotte dal sindaco Moratti e senza l’irruzione di Berlusconi, modello 2011, sarebbe stata un’altra storia. Ma certo quello che va riconosciuto è che Pisapia ha creato le condizioni per la coesione dello schieramento che lo sosteneva. E coesione significa motivazione, convinzione e capacità di dare un senso, di creare empatia, di attrarre o di creare dubbi, ripensamenti.
Possiamo perciò con più decisione ritenere che l’efficacia della comunicazione in politica dipenda dalla coesione dello schieramento, dal momento magico che rende un tutt’uno credibile leader e follower, candidato e sostenitori, obiettivi, valori di riferimento e proposte programmatiche, comportamenti che li rendono visibili, verificabili. I sostenitori di Pisapia pur non rinnegando le appartenenze si sono ridefiniti come qualcosa di diverso, un’evidenza di questo è l’adozione spontanea e generalizzata da parte dei militanti che erano in piazza Duomo di bandiere e sciarpe arancioni.
Questa coesione è fatta di due elementi: un processo di affermazione della candidatura che sia riconosciuto legittimo da tutti i sostenitori (e in questo momento non può che essere qualcosa che assomigli a quello che abbiamo definito primarie); una tensione costante a rappresentare gli interessi della maggioranza dei componenti della comunità a cui ci si rivolge (e per non scivolare in querelle nominalistiche ormai retrò possiamo anche non chiamarla vocazione maggioritaria).
Della necessità di trovare nuove forme di legittimazione della rappresentanza oggi sembra se ne rendano conto anche esponenti del Pdl alle prese con la crisi del leader carismatico, founder and ceo.
Beh, non sarebbe male che si riconoscesse al Pd il merito di aver imboccato e indicato, pur tra difficoltà e incertezze, la strada giusta.

da Europa Quotidiano 03.06.11