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"Salvare la scuola in due mosse: passione e digitale", intervista a Marc Prensky di Luca Landò

Lasciate ogni computer voi che entrate. Certo, Dante la metteva diversamente ma per un ragazzo cresciuto a internet e twitter, facebook e videogiochi l’inferno, oggi, è un ambiente senza tecnologie digitali. Come la scuola. A dirlo è Marc Prensky, autore di una serie di videogiochi educativi e guru di quel campo, affascinante quanto impronunciabile, chiamato edutainment, dove educazione e divertimento diventano la stessa cosa.

«Le scuole di oggi stanno fornendo un pessimo servizio ai nostri ragazzi: che senso ha fornire l’educazione di ieri ai cittadini di domani? È una scuola che viene dal passato e che non è in grado di preparare il futuro. La pedagogia del “prima spiego, poi verifico” non funziona più: molti dei ragazzi di oggi non ascoltano a sufficienza e i risultati sono scadenti. Come non bastasse, i ragazzi a scuola non sono trattati come individui, le loro conoscenze (sono bravissimi come le nuove tecnologie o i giochi elettronici) non vengono rispettate. Ed è un errore perché potrebbero diventare il modo per imparare a creare e a risolvere problemi anche complessi. Le passioni individuali sono la chiave della nuova educazione, invece oggi non contano praticamente nulla. Fino a che non cambieremo tutto questo, fino a che non rivedremo la nostra pedagogia di base, gli strumenti digitali e l’innovazione tecnologica non saranno di grande aiuto all’educazione, tanto meno a scuola».

Il suo ultimo libro, «Teaching to digital natives», è dedicato agli insegnanti che si trovano davanti ragazzi nati e cresciuti in un mondo dominato dalla cultura e dalle tecnologie digitali. Come si insegna ai nativi digitali?

«Gli insegnanti devono rivolgersi agli studenti in modo nuovo. Il vecchio approccio tipo “io parlo, tu ascolti” deve essere sostituito da una pedagogia dove gli studenti possano fare quello che riesce loro meglio: trovare contenuti, usare nuove tecnologie, esprimere la loro creatività. Anche gli insegnanti devono fare le cose per cui sono più portati: fare le domande giuste, porre i problemi appropriati, assicurare il rigore e la qualità e mettere ogni cosa, ogni argomento, ogni espressione all’interno del giusto contesto. Dobbiamo mettere le passioni individuali degli studenti davanti a tutto e capire come sfruttare quelle passioni ai fini dell’insegnamento. Mettiamola così: grazie ai nuovi strumenti e alle loro passioni, gli studenti possono insegnare a loro stessi».

Scusi, ma gli insegnanti?

«Diventano i loro allenatori, le loro guide, i loro partner. Si mettono al loro fianco ad aiutarli anziché in alto a comandarli».

Abbiamo bisogno di “insegnanti digitali”?

«Sarebbe di grande aiuto se gli insegnanti, quelli in carne ed ossa intendo, capissero e rispettassero quello che gli strumenti digitali possono portare all’educazione. Per farlo, gli insegnanti non devono necessariamente imparare a usare loro stessi quegli strumenti (a meno che non lo vogliano): ci sono già gli studenti che possono farlo, anzi lo vogliono fare. Gli insegnanti possono, quando è il caso, utilizzare gli strumenti digitali per spiegare qualcosa agli studenti ma non devono – mai, in nessun caso – usare gli strumenti elettronici (lavagne elettroniche, computer o qualunque altra cosa) al posto degli studenti: sono gli studenti che li devono usare con gli insegnanti che li aiutano e che controllano la qualità del lavoro e dei risultati.
C’è poi un’altra categoria di insegnanti digitali, poco umana ma molto efficace: si tratta di software, video, giochi elettronici che agiscono come aiuto nel processo di insegnamento/apprendimento. Questo, ovviamente, sta già accadendo (guardate il sito www.khanacademy.org per avere un’idea) e diventerà assai sofisticato nei prossimi decenni. Uno dei principali benefici è che lo studente può ripercorrere l’insegnamento secondo i propri tempi e con il proprio passo, tante volte quante gli pare, e possono imparare nel modo che è loro più conveniente. Questo potrebbe avere una ricaduta molto positiva per le scuole, poiché consente all’insegnante di interpretare al meglio il nuovo, importantissimo ruolo di allenatore, guida, partner, lasciando agli “insegnanti elettronici” la parte dell’insegnamento più tradizionale».

Quali sono i vantaggi di una scuola completamente digitale? E le controindicazioni, come direbbero i medici?

«La tecnologia digitale comporta enormi vantaggi per l’educazione, compreso il fatto di connettersi col resto del mondo, condividere i problemi e le soluzioni, ricevere risposte… Ma la tecnologia digitale non è, di per sé, la soluzione ai problemi dell’educazione. Per capirci, aggiungere le nuove tecnologie alla vecchia pedagogia dello “spiego e verifico” potrebbe addirittura danneggiare il processo educativo, aumentando la distrazione e riducendo l’ascolto, senza portare alcun vantaggio da quei nuovi, potentissimi strumenti. La condizione indispensabile, irrinunciabile per introdurre le nuove tecnologie è cambiare la pedagogia classica dell’insegnamento verticale in una forma di affiancamento orizzontale. Come detto, l’insegnante deve diventare un partner dello studente: non ti insegno ma ti aiuto.

Fino a mezzo secolo fa quello che si imparava a scuola durava una vita, oggi le conoscenze hanno vita breve, rimpiazzati da nuove idee, nuove concetti, nuovi saperi. Che senso ha parlare di un periodo scolastico se l’educazione tenderà a essere permanente?

«L’esplosione di informazioni e il loro rapido cambiare è la conferma che imparare “cose” o “informazioni” è molto meno importante dell’apprendere alcune capacità. Per questo è importante proteggere e stimolare le passioni individuali dei ragazzi, perché sono quelle che ti permettono di sviluppare al meglio quelle capacità. La passione, quella individuale, qualunque essa sia, è il motore che spinge all’apprendimento e al successo».

Come possono aiutarci in tutto questo le nuove tecnologie?

«Le nuove tecnologie sono cruciali ma sono gli strumenti, non la soluzione. A questo proposito, uso la metafora dei verbi e dei nomi. I verbi sono le “capacità” che vogliamo che i nostri studenti apprendano e conoscano, come il pensiero critico, l’analisi, il problem solving. Queste capacità non cambiano col passare del tempo, sono le costanti dell’educazione. I nomi sono invece gli “strumenti” che sono sempre più tecnologici e che cambiano sempre più rapidamente. Il trucco per gli educatori è di usare i nomi più aggiornati per ciascun verbo. Ad esempio, per il verbo “comunicare” il nome preferito era un tempo “scritto a mano”, poi si è trasformato in “email” fino a diventare oggi “twittare”. E non c’è dubbio che i nomi (strumenti) cambieranno ancora, mentre il verbo “comunicare” durerà nel tempo».

Le scuole non dovrebbero insegnare agli studenti come usare le nuove tecnologie per raccogliere informazioni sempre aggiornate?

«Utilizzando la stessa metafora, il verbo in questo caso sarebbe “raccogliere e aggiornare le informazioni”. Come nome gli antichi studenti egizi usavano i rotoli di papiro. Le generazioni del secolo scorso usavano i libri e le bibloteche. I bambini di oggi e di domani usano i computer. Sono gli strumenti del loro tempo».

Vede un mondo in cui insegnare sarà fatto tutto al computer?

«Anche se già oggi il web contiene tutte le informazioni di cui uno abbia bisogno, usare solo Internet non è un modo particolarmente attraente o invitante di imparare. Questo sicuramente cambierà – in realtà sta già cambiando – anche se non sappiamo come. Sappiamo che sarà diverso, questo sì. Lo scrittore di fantascienza Vernor Vinge immagina nel suo romanzo Rainbows End che tutta l’informazione necessaria per qualunque nuovo lavoro possa essere caricata direttamente nel cervello. Il guaio è che dopo alcuni di questi pesanti trasferimenti di dati, la mente si rompe. Credo che “l’interazione di persone con altre persone” rimarrà, in un modo o l’altro, un modo attraente per imparare, ma questo apprendimento uomo-uomo sarà sempre più mediato dalla tecnologia e sempre meno dal contatto fisico faccia a faccia».

Cinquant’anni fa la conoscenza era un processo lineare (vai a scuola, apri un libro, ascolti una conferenza) oggi è frammentata: pezzi di informazione qui e là. Chi ti insegna a ricomporre questi frammenti?

«La conoscenza è sempre frammentata, fino a che le persone non mettono assieme i vari pezzi. Una differenza col passato è che prima ci volevano degli “esperti” per fare questa ricomposizione, ora con i moderni strumenti è più semplice per i singoli individui fare questo in modo nuovo. Wikipedia è un grande esempio.
Dal punto di vista teorico, i nuovi strumenti possono essere appresi in contesti formali, come le scuole. Ma data la velocità del cambiamento è più facile che accada, io credo, attraverso media come YouTube…».

Qual è la scuola ideale (o la più efficiente) che ha in mente?

«La scuola dovrebbe essere un posto dove la gente riesce a dar seguito e a far crescere le proprie passioni – qualunque queste siano – e trovano la possibilità, facendo questo, di imparare quanto più possibile. Oggi Internet è il deposito della maggior parte dell’informazione e della conoscenza del mondo. Ma, di nuovo, Internet è solo uno strumento, un nome. Verrà sicuramente rimpiazzato, prima o poi, da un nome migliore».

Non rischia di essere pericoloso un mondo dove la conoscenza è web based quando non tutti possono ancora accedere a internet?

«È pericoloso avere educazione o elettricità o assistenza sanitaria quando non tutti possono accedervi in modo eguale? No, naturalmente. Dobbiamo semplicemente lavorare più duramente per dare un accesso a tutti. Credo che tutti, e gli educatori in particolare, debbano fare il possibile per diventare “moltiplicatori digitali”, ad esempio dovrebbero fare la loro parte per portare i benefici della tecnologia digitale, compreso l’accesso, a gruppi sempre più ampi, fino a incrociare tutti. E dovrebbero fare lo stesso per la salute, il cibo, l’educazione e altre tecnologie».

A cosa sta lavorando adesso?

«Di recente ho sviluppato dei videogiochi per apprendere le regole di base della finanza: sono rivolti agli studenti che hanno finito il liceo e stanno per entrare nell’università. Ne ho finito un altro che aiuta i ragazzi tra i 13 e 15 anni a prevenire e superare la depressione e che è stato giudicato utilissimo dai ricercatori che trattano di questo argomento. Al momento sto lavorando su un gioco che insegna grammatica: i giocatori devono aggiungere la punteggiatura ai discorsi di famosi personaggi mentre il testo scorre sul gobbo, ma ne ho altri tre per imparare l’algebra, la storia e la scienza. Se svilupati bene, con sufficiente respiro e completezza, i giochi elettronici possano diventare strumenti utili, dei nomi appunto, per insegnare ai nativi digitali».

L’Unità 06.06.11

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“Edutainment: l’altro modo di educare”, di Carlo Infante

È inevitabile utilizzare nuove parole per dare nome a nuove cose, anche
se a volte può dare fastidio l’abuso di neologismi anglosassoni.
Una di queste è edutainment che coniuga educational (ciò che è educativo) ed entertainment (ciò che è intrattenimento, spettacolo, gioco) definendo così un nuovo ambito per dare sviluppo a un’idea più dinamica per l’apprendimento. Questo principio ludico-educativo può rivelarsi uno dei migliori approcci per affrontare la mutazione digitale.
La multimedialità e il web si stanno rivelando non solo dei buoni strumenti ma ambienti in cui inventare nuove forme di comunicazione che riguardano sempre più la sfera sociale ed educativa. Per questo che è necessario considerare un’educazione permanente che i sistemi della formazione avanzata stanno attuando da tempo e che sarebbe opportunoestendere alle iniziative che promuovono cittadinanza attiva.
Il mondo della scuola già alla fine degli anni novanta, quando fu lanciato il primo piano strutturato per le tecnologie didattiche, contemplò questo aspetto, si crearono, qua e là, esperienze emblematiche, come le prime biblioteche multimediali, veri presidi culturali radicati nel territorio. Il dato cardine di questa riflessione è che il mondo della scuola non può essere lasciato da solo, perché la questione educativa va ben oltre la didattica. L’educazione, ribadiamo, è direttamente proporzionale alla percezione di uno spazio pubblico
condiviso, condizione che riguarda lo sviluppo di una Società dell’Informazione in cui le reti svolgono un ruolo decisivo per le nuove generazioni. Nella comunicazione multimediale il fatto stesso di far interagire il principio cognitivo (la testualità) con quello percettivo (le immagini e i suoni) induce a un rapporto che rientra in pieno nel concetto di edutainment: un modo in cui l’educazione si coniuga con il gioco inteso come modalità scatenante di creatività, partecipativa e collaborativa.
Se educare significa stimolare un approccio dinamico con le conoscenze, tirare fuori risorse più che mettere dentro informazioni, ci si rende conto di come l’impianto dell’istruzione tradizionale sia impreparato alle metamorfosi sociali provocate dai media.
Nessuno si sognerebbe di sottovalutare l’importanza della struttura didattica dell’insegnamento ma qui s’intende evidenziare il principio attivo che sta alla radice del concetto stesso di educazione, quel “far crescere” che riguarda una nuova generazione proiettata nel futuro digitale.

L’Unità 06.06.11