attualità, politica italiana

"Il Cavaliere si fa il monumento", di Filippo Ceccarelli

Chi si loda, s´imbroda. Eppure per anni il berlusconismo ha accumulato più potere e ottenuto più credito dei proverbi, che sono la saggezza dei popoli. Io sono il più bravo, il più ricco, il più charmantIl più amato, il più popolare, il più tutto. Non solo, ma occorre riconoscere che nel corso del tempo divertiva anche, quel vitalismo imperioso, quel narcisismo in caduta libera, quella faccia incredibilmente tosta. Io, io, io, e giù numeri, sondaggi, trovate, storielle, paragoni, scherzosi o meno che fossero, io l´Unto, io Cesare, io Giustiniano, io Napoleone, io De Gasperi, io de Gaulle, io Gesù, io e Dio che si lamenta perché in Paradiso «l´ho fatto vicepresidente», ah-ah.
Per cogliere al meglio la dinamica adulatoria che di norma accompagna e incoraggia questo genere di spettacoli occorre osservare l´espressione concentrata e poi anche il sorriso inesorabilmente fantozziano con cui il ministro Alfano, ieri pomeriggio, nella sala stampa di Palazzo Chigi, ancora una volta ha accolto l´auto-magnificazione del Cavaliere e del suo governo.
In un video di 2 minuti e 40 il presidente Berlusconi sostiene che gli italiani «dovrebbero farci un monumento»; che lui sta «nella vetta della considerazione» internazionale; che è «il più esperto» fra gli altri leader del mondo per il suo «passato pieno di successi» che lo «distingue grandemente», lo mette «un gradino sopra» e «mi fa tycoon»; che lui pure all´università era bravissimo, mica solo Angelino ormai in ridente estasi al suo fianco, tanto che ha preso 30 e lode «anche in procedura civile» e quanto a intelligenza, e qui si è pure concesso un preziosismo latino, «intus legere», non «è secondo a nessuno».
Ma stavolta l´effetto è stato straniante, e anche un po´ triste. Non solo per la faccia appesa, il colorito terreo, la voce meno convinta del solito. E dinanzi all´auto-elogio spinto, era come se un velo si fosse all´improvviso tolto dagli occhi, finalmente capaci di intus legere, appunto, leggere dentro.
E mentre il Cavaliere proseguiva il suo numero, era inevitabile ripensare con malinconico distacco agli allegri e impetuosi e perfino efficaci accessi di megalomania berlusconiana del passato, alle sapide sbruffonate di quella dinamica psicopolitica ormai al tramonto: dalle coppe calcistiche vinte e scagliate sui nemici alle ville che sono talmente tante «che alcune nemmeno le conosco»; dalle innumerevoli conquiste femminili alle ridottissime ore di sonno dell´iper-lavoratore, che dove passava «fermava il traffico» e sempre sognava in grande, al punto da costruirsi anzitempo un mausoleo nel parco, e un bunker, e un teatro greco, e una pizzeria, un lago con isola per meditare, e una gelateria con la cassa che dà gli scontrini, e un vulcano che a comando fa un boato, e partono anche i fuochi, a Villa Certosa, che dopo la prima eruzione, Ferragosto 2007, gli ignari vicini chiamarono i vigili del fuoco.
Il Contratto con gli italiani, le Grandi Opere, il lenzuolone delle realizzazioni, il Modello Universale dell´e-government, il miracolo dell´immondizia e quello dell´Aquila e «Meno male che Silvio c´è». Sembra incredibile che tutto questo stia finendo. Che Berlusconi non racconterà più che ha sfidato e battuto i ragazzi della scorta sui cento metri; e non porgerà più la mano dicendo: «Toccatela, ha fatto il grano»; né più si alzerà i pantaloni o la manica della camicia per mostrare i graffi e i lividi procuratisi nei bagni di folla perché la folla lo voleva toccare, «mi gridavano Santo subito!».
Eh, brutto spettacolo è l´agonia di un regno. Alla fine della sua conferenza Berlusconi ha raccontato l´apologo trito e ritrito di zia Marina che davanti allo specchio, in dialetto milanese, si faceva le moine venerando la propria bellezza perché «se non me lo dice nessuno, me lo dico da sola». Ed è un curioso destino che la vita degli italiani sia funestata dalle zie dei presidenti. Quella di Andreotti si chiamava Mariannina e diceva sempre: «Tutto si aggiusta». Che come si può vedere non sempre è vero, anzi quando un potere si rompe, sempre al di là dei proverbi, di solito nessuno paga, ma i cocci sono di tutti.

La Repubblica 10.06.11