attualità, politica italiana

"I ministeri al Nord e la partita leghista", di Giuliano Amato

Non ha destato l’attenzione che merita la proposta di iniziativa popolare per la “territorializzazione dei ministeri”, avanzata dal ministro Calderoli. È vero che il presidente del Consiglio ne ha subito ridimensionato il possibile accoglimento (limitandolo a qualche ufficio ministeriale) e che il ministro Galan l’ha liquidata con un rifiuto senza appello. Ma quello sollevato dalla Lega è un tema ricorrente e chi lo solleva lo fa a volte in nome di esigenze giuste, altre volte di esigenze profondamente sbagliate. Entrare nel merito può servire sia a liberarsi, sperabilmente, delle esigenze sbagliate, sia a capire, più in generale, chi e che cosa vuole rappresentare la Lega ai fini di quella grande trasformazione istituzionale che ha comunque messo in moto e che chiamiamo federalismo.
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Antesignana della proposta è – com’è noto – la Fondazione Agnelli, la quale, con un suo volumetto, lanciò nel 1993 la “capitale reticolare”, sostenendo che la disseminazione in città diverse delle funzioni di capitale era in atto da tempo nei maggiori Paesi europei e che l’Italia era un baluardo ormai retrogrado del centralismo burocratico. Il lavoro dava conto, per la verità, di esperienze assai diverse fra loro. In Gran Bretagna si era voluto spostare lavoro pubblico in aree deindustrializzate dove stavano sparendo a migliaia i posti di lavoro privati. E lo si era fatto trasferendo intere strutture amministrative dei ministeri del Lavoro e della Sanità. In Francia si era voluto soprattutto decongestionare l’area di Parigi, ma lo si era fatto collocando fuori di essa non ministeri, bensì attività di ricerca, grandi aziende pubbliche e da ultimo la mitica Ena, la scuola dei funzionari pubblici, trasferita a Strasburgo. Diverso era il caso della Germania, dove Berlino, per decenni capitale simbolica, lasciò a Bonn una parte delle amministrazioni quando tornò ad essere capitale di fatto, mentre fuori da Bonn e da Berlino rimasero le due istituzioni indipendenti per antonomasia, la Corte Costituzionale a Karlsruhe e la Bundesbank a Francoforte.
In un breve saggio che concludeva il volume, Gustavo Zagrebelsky metteva a fuoco le diverse finalità concretamente perseguite dai “delocalizzatori” – segnalando fra queste la stessa delegittimazione della capitale esistente – e sottolineava che il silenzio (di allora) della nostra Costituzione sulla capitale non cancellava la necessità che la capitale vi sia, quale “luogo del sovrano e quindi oggi degli organi politici più elevati”. Essa è infatti “elemento costitutivo di ogni organizzazione costituzionale, anche per ragioni di diritto internazionale, di rappresentanza e così via”. Un’affermazione pacifica per qualsiasi costituzionalista.
Che cosa ricaviamo da tutto questo? Che di sicuro ha senso collocare fuori dalla capitale le istituzioni che non sono e non devono essere in contatto con le supreme istituzioni politiche. Non tutti lo fanno e in particolare non lo fa uno Stato federale fra i più celebrati del mondo, gli Stati Uniti d’America.. Ma la scelta tedesca è più che sostenibile. Ha anche senso decongestionare l’area della capitale, come si è fatto in Francia, portandone fuori funzioni pubbliche e private attratte da essa, ma che nulla hanno a che fare con le sue funzioni essenziali. Naturalmente ha senso se lo si fa a ragion veduta e in particolare valutandone preventivamente gli effetti sia sulla spesa pubblica sia sui costi privati (delocalizzazioni rilevanti verso aree urbane minori possono far impennare qui sia i valori immobiliari sia il costo della vita, provocando cocenti delusioni nelle comunità preesistenti). Può infine aver senso sostituire impiego pubblico ad impiego privato in caduta, ma allora lo si fa a beneficio delle aree depresse e non trasferendo in esse ciò che oggi è più facile trasferire, vale a dire gli uffici che custodiscono e gestiscono banche dati informatiche. Le tecnologie della comunicazione rendono infatti irrilevante la localizzazione, ma i posti di lavoro che ne escono sono irrisori.
Quello che non ha senso è moltiplicare le sedi in cui sono localizzate le funzioni essenziali della capitale. Non ha senso perciò moltiplicare le sedi del Parlamento, come sciaguratamente continua a fare l’Unione Europea con ripetuti e costosi spostamenti di carte e di personale fra Bruxelles e Strasburgo. Non ha senso separare la sede del Parlamento da quella del Governo e del Capo dello Stato, né ha senso separare da essa la sede dei ministeri. I ministri devono lavorare là dove li può convocare ad ogni momento l’istituzione da cui dipendono o alla quale rispondono, il Capo del Governo o il Parlamento. E per lavorare i ministri devono avere a disposizione altrettanto immediata i dirigenti delle loro Amministrazioni, con i quali preparano e istruiscono ciò che sono chiamati a fare nelle altre sedi istituzionali.
Non solo nulla di ciò ha senso, ma in Italia neppure è consentito, perché oggi nella Costituzione è scritto, al terzo comma dell’art.114, che “Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”. Vi sono modi diversi per attuare questa disposizione, ma un vincolo essa lo pone comunque. Non possono essere spostate da Roma le funzioni essenziali della capitale, perché non può essere messo in discussione lo status di Roma capitale.
E qui si arriva al ruolo che la Lega vuole giocare in Italia. Un partito, pur nato localmente, che si fa promotore della trasformazione federalista dello Stato, può ben sentirsi a quel punto portatore di una visione e di un disegno non soltanto per le sue valli d’origine, ma per l’intero Paese. Alla fin fine ciò che sta facendo è coerente con i disegni di buona parte dei padri fondatori dell’Italia unita, costretti al centralismo dalle difficili vicende dell’unificazione, ma convinti essi stessi che ad uno Stato delle autonomie prima o poi si doveva arrivare. Un partito con tale consapevolezza, perciò, non sentirà il bisogno di vivere e di far vivere il federalismo come una demolizione di Roma capitale. Coltiverà progetti di delocalizzazione, coerenti in quanto tali con la sua visione policentrica dell’Italia, ma troverà esso stesso innaturale che vi sia fra questi progetti la delocalizzazione dei ministeri, cioè degli organi titolari delle residue funzioni dello Stato centrale.
Un partito che parli invece a nome di una parte sola del Paese e che veda questo nella sua interezza come controparte di quella che esso rappresenta, giocherà una partita permanentemente diversa. Contro l’inno nazionale, contro il giuramento sulla Costituzione, contro la capitale d’Italia. In tal modo farà percepire il suo federalismo non come una espressione più ricca dell’unità nazionale, ma come la sua negazione. Col rischio di alienargli la maggioranza degli italiani.
C’è una scelta davanti alla Lega.

Il Sole 24 Ore 12.06.11