attualità, politica italiana

I «disobbedienti» del centrodestra, di Gian Antonio Stella

«Decido io» , diceva Silvio Berlusconi. «Decido io» , diceva Umberto Bossi. E per una vita la parola dei rispettivi Capi, per i militanti dei due partiti, era davvero definitiva: «Lo ha detto Lui» . Fine. Da ieri non è più così: il Centralismo carismatico di Silvio e dell’Umberto, per la prima volta, perde i pezzi. Capiamoci, i due leader tengono ancora in mano saldamente i movimenti che hanno fondato. Ed era ovvio che il messaggio del Cavaliere dopo il secondo ceffone in un paio di settimane fosse quello di ribadire: io sono il perno, non ho alternative. Lo fa da sempre. Fin da quando nel ’ 95, scottato dal «ribaltone» della Lega, liquidò brusco le insofferenze e i dubbi di chi gli stava intorno: «Decido io. Il capo del Polo sono io. Chi ci sta ci sta, chi non ci sta va fuori» . Principio ribadito più volte: «Il leader di una coalizione è colui che ha più voti, il resto è poesia» . «Sono insostituibile» . «La premiership è mia, punto e basta» . Men che meno è stato disposto a discutere il proprio ruolo, monarchico, il Senatur. Che dopo aver espulso via via tutti i potenziali dissidenti (compresi 8 dei 9 amici che dal notaio Giovan Battista Anselmo avevano fondato con lui la Lega Nord) ha ribadito più volte chi comanda nel partito: «Decido io» . «Le pedine sulla scacchiera le muovo io e carico il destro quando voglio io» . E chi non è d’accordo o chiede spazio? Tolleranza zero. Basti ricordare come bacchettò Alessandro Cè quando quello ipotizzò uno smarcamento dalle alleanze: «Il segretario della Lega sono io. Se togliere il voto della Lega lo decido io» . Perfino Roberto Maroni, quando nel ’ 94 manifestò il proprio disaccordo dalla scelta di buttar giù Berlusconi, fu messo in riga in un Palatrussardi con striscioni pesanti («La Lega ce l’ha duro e i maroni ce li ha sotto» ) e lui stesso, l’amico Umberto, tuonò: «A Roberto per anni ho scaldato il latte tutte le mattine, ma è il nostro braccio debole e va amputato» . Fa uno strano effetto, dunque, leggere oggi che per il deputato berlusconiano Fabio Rampelli (tra i primi a disobbedire all’invito di andare al mare) «sono almeno 12 milioni gli elettori del centrodestra che si sono recati alle urne» e che «alcune personalità del Pdl si ostinano aristocraticamente a dare degli imbecilli ai propri elettori» . Quanti siano stati esattamente, questi berlusconiani e bossiani che hanno rifiutato l’invito ad andare al mare, lo si accerterà meglio nei prossimi giorni. Certo è che per la prima volta, fatta eccezione per la rivolta finiana, la battaglia referendaria ha visto diversi esponenti pidiellini e leghisti esporsi pubblicamente in dissenso dalle raccomandazioni dei propri leader rispettivi. Sia chiaro: molti hanno obbedito. Come Franco Frattini, astenuto perché la tornata referendaria si era «trasformata in un referendum pro o contro il governo e contro Berlusconi» . O Mara Carfagna: «Non andrò a votare perché è un voto contro il governo» . O ancora Gaetano Quagliariello: «Il referendum sul legittimo impedimento esprime una volontà cieca di colpire Berlusconi» . Tutte parole che, rilette oggi dopo la disfatta affannosamente sdrammatizzata come «un’opinione dei cittadini di cui tener conto» , si pentiranno di aver detto. Né poteva smarcarsi uno come Roberto Calderoli che da anni si vanta di essere il più fedele dei fedeli («Io ho un capo, si chiama Bossi, e se mi dice “buttati da questo ponte”io mi butto. Magari mi dispiace, ma mi butto» ) e oggi sospira: «Alle amministrative due settimane fa abbiamo preso la prima sberla, ora con il referendum è arrivata la seconda. Non vorrei che quella di prendere sberle diventasse un’abitudine…» . «Non ci sono più guance da offrire» , gli ha fatto coro nei sospiri il sindaco di Treviso, Gian Paolo Gobbo, che pure aveva rispettato «la comanda» bossiana ad astenersi. Il paradosso è che proprio i «disobbedienti» che a dispetto dei leader sono andati a votare e lo hanno fatto sapere, sono quelli che consentono oggi al centrodestra di dire che no, l’inattesa e travolgente ondata referendaria «non è stata un trionfo della sinistra» . Certo, vedere la devota amazzone Daniela Santanchè teorizzare che visti i risultati «gli italiani sono abbastanza in linea con il governo» , un triplo salto mortale con avvitamento a destra, fa ridere. Ma come può essere messo tra gli sconfitti Luca Zaia, che ha votato quattro «sì» (anche sul legittimo impedimento: «Se riguardasse me preferirei avere una corsia preferenziale che sveltisse i procedimenti» ) al pari della maggioranza dei veneti? O Renata Polverini, la governatrice laziale che, facendo spallucce agli appelli («i referendum su temi così importanti vanno al di là delle indicazioni di partito» ) ha rivendicato la sua autonomia anche sul quesito («Penso che ciascuno di noi abbia il diritto e il dovere di avere un processo rapido. Io mi ci sottoporrei immediatamente» ) più ustionante per il Cavaliere? Bastava scorrere ieri pomeriggio i blog destrorsi o sintonizzarsi su Radio Padania libera per capire come la fetta dei cittadini di destra che si sono sentiti rappresentati da Roberto Maroni (che ha votato sì solo sull’acqua, ma ha votato) o da Gianni Alemanno (solo sul nucleare, ma ha votato) è più larga e più insofferente agli schemini di quanto i loro capi immaginassero. E adesso? Dice Ignazio La Russa che lui non vede problemi: «Voglio ricordare che la Dc perse nel 1974 il referendum sul divorzio, poi governò altri venti anni» . Vero. Ma se avesse riflettuto sugli errori commessi (Enrico Berlinguer spopolò in tv l’ultima sera mostrando un «santino» antidivorzista distribuito ai bimbi di un asilo con scritto: «I fanciulli nel lor cuore han degli orfani il dolore» ) forse si sarebbe accorta che iniziava lì il suo inarrestabile declino. Quanto alla campagna elettorale, interminabile e spesso volgare, non rimpiangeremo molto. Sotto certi aspetti, anzi, vien voglia di rimpiangere piuttosto quell’altra sul nucleare del 1987. Che vide la partecipazione, tra gli altri, di una indimenticabile Ilona Staller che nella Navicella parlamentare dell’anno successivo annotò nella sua biografia, accanto alla presenza col nome d’arte di Cicciolina nel film «Carne bollente» «al fianco del superdotato John Holmes» , la sua rilevante iniziativa per ricordare Cernobyl: «Girava nuda in macchina per Roma con un carciofo radioattivo in mano» .

Il Corriere della Sera 14.06.11

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“L’ENERGIA POSITIVA di UN VOTO”, di MICHELE AINIS

Saranno ormai tre lustri che i referendari vivono in una riserva indiana, circondati da forze sovrastanti; e dopo 24 referendum senza quorum ci avevamo fatto il callo, stavamo cominciando a rassegnarci. Tanto più in quest’occasione, con il voto trasformato in una gara d’alpinismo (terzo appuntamento elettorale in quattro settimane). Con un’informazione tardiva e insufficiente nelle Tv di Stato. Con mezzo governo che ci ammoniva a non sprecare tempo: quesiti inutili, inutili pure gli elettori. Infine con l’esperienza fresca fresca delle Amministrative, dove il partito del non voto è stato di gran lunga il più (non) votato. E allora com’è che l’onda d’astenuti alle elezioni provinciali (55%) è diventata uno tsunami di votanti (il 57%) sui 4 referendum? Risposta: perché gli italiani non ne possono più dei politici italiani. Non della politica, però. Non se esprime facce nuove, meno logore di quelle che frequentano il Palazzo da vent’anni. Non se interroga questioni di fondo del nostro vivere comune. Sicurezza, ambiente, eguaglianza, confine tra pubblico e privato: dopotutto erano queste le domande sollevate dai referendum. Gli elettori hanno risposto bocciando altrettante leggi del governo, e bocciando perciò il governo nel suo insieme. Ma l’opposizione farebbe molto male a sfilare sotto l’Arco di Trionfo. C’è infatti un collante, c’è un denominatore comune fra le Amministrative e i referendum: il ritiro della delega. Perché adesso gli italiani hanno deciso di decidere, senza subire le scelte di partito, quale che sia il partito. Ne è prova il voto del 30 maggio a Napoli, dove metà degli elettori si è tenuta lontana dalle urne, mentre l’altra metà ha espresso un plebiscito per un uomo fuori dai partiti, persino il proprio. Ne è prova la manifestazione del 10 giugno che ha chiuso la campagna per i referendum, rigorosamente senza bandiere di partito: gli organizzatori sapevano quanto fossero indigeste. Da qui una duplice lezione, sempre che la politica abbia voglia d’ascoltarla. Primo: il testo del referendum dipende dal contesto. È infatti il clima del Paese che imprime forma e forza ai singoli quesiti, caricandoli di significati generali. Funzionò così per il divorzio e per l’aborto (un’iniezione di laicità nel nostro ordinamento), per i referendum elettorali dei primi anni Novanta (una domanda di ricambio nelle classi dirigenti), o altrimenti per le tante consultazioni andate a vuoto, senza un vento popolare a soffiare sulle vele. Perché ogni referendum ha questa valenza: serve a incanalare un’energia. Non a caso l’istituto fu battezzato in due Stati (Usa e Svizzera) che non contemplavano lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma il referendum non può creare un’energia politica, può solo intercettarla. Quando c’è, e adesso ce n’è a iosa. Il lungo sonno è terminato. Secondo: la nostra bistrattata Carta si è presa una rivincita. La «gemma della Costituzione» — come a suo tempo Bobbio aveva definito il referendum— è tornata a brillare. E forse questo sussulto di democrazia diretta convincerà la maggioranza a curare i mali della democrazia indiretta, a partire dalla legge elettorale. Forse ci convertirà un po’ tutti a un atteggiamento di maggiore lealtà verso le istituzioni. Ieri abbiamo letto editoriali che bacchettavano il capo dello Stato per essersi permesso di votare. La risposta più sonante l’ha offerta quel 5%di italiani che ha votato «no» ai quesiti, evitando le scorciatoie dell’astensione. Perché ogni referendum fallito nel vuoto delle urne rappresenta pur sempre una sconfitta della democrazia. E perché nessun principio di sovranità popolare può mai attecchire senza un popolo disposto a esercitarla. Votando in massa i referendum, il popolo italiano si è dunque riappropriato della sua Costituzione. Eravamo sudditi, stiamo tornando cittadini.

Il Corriere della Sera 14.06.11