attualità, politica italiana

"Il flauto magico spezzato", di Ezio Mauro

Il flauto magico si è spezzato, gli italiani dopo vent´anni rifiutano di seguire la musica di Berlusconi. Quattro leggi volute dal premier – una addirittura costruita con le sue mani per procurarsi uno scudo che lo riparasse dai processi in corso – sono state bocciate da una valanga di “sì” nei referendum abrogativi che hanno portato quasi 27 milioni di italiani alle urne. E la partecipazione è il vero risultato politico di questo voto. Berlusconi, come Craxi, aveva invitato gli italiani a non votare, andando al mare, e gli italiani gli hanno risposto con una giornata di disobbedienza nazionale scegliendo in massa le urne, dopo quindici anni in cui i referendum non avevano mai raggiunto il quorum. Una ribellione diffusa e consapevole, che dopo la sconfitta della destra nelle grandi città accelera la fine del berlusconismo, ormai arenato e svuotato di ogni energia politica, e soprattutto cambia la forma della politica nel nostro Paese.
L´uomo che evocava il popolo contro le istituzioni, contro gli organismi di garanzia, contro la magistratura, è stato bocciato dal popolo nella forma più evidente e clamorosa, dopo aver provato a mandare a vuoto proprio la pronuncia popolare degli elettori, di cui aveva paura, cercando di far saltare il quorum fissato dalla legge.Così facendo il premier non si è reso conto di denunciare tutta la sua angoscia per le libere scelte dei cittadini e la sua incapacità ogni giorno più evidente di indirizzare queste scelte politicamente, orientandole verso il “sì” o il “no”. Legittimo formalmente, l´invito a non votare è in questa fase del berlusconismo una conferma di debolezza, quasi una dichiarazione di resa, soprattutto una prova politica d´impotenza, senza futuro.
Temeva le emozioni, il presidente del Consiglio, dopo il disastro di Fukushima: come se le emozioni non facessero parte semplicemente della vita, e come se lui stesso non fosse anche in politica un imprenditore di emozioni oltre che di risentimenti. Ma i risultati dimostrano che gli italiani non hanno votato per paura, bensì per una libera scelta, con serenità e coscienza, perfettamente consapevoli del merito dei singoli quesiti referendari – con l´abrogazione del legittimo impedimento che ha avuto praticamente gli stessi voti dei no al nucleare o alla privatizzazione dell´acqua – ma anche della portata politica generale di questo appuntamento elettorale.
Dunque la sconfitta è doppia, per il capo del governo. Nel merito di leggi che ha voluto e ha varato, e che (il nucleare) ha anche cercato di manipolare per ingannare gli elettori, scavallare il referendum e tornare a proporre le centrali subito dopo. Nel significato politico, perché il voto è anche contro il governo, contro Berlusconi e contro il proseguimento di un´avventura ormai completamente esaurita e rifiutata dagli italiani. E qui c´è la sconfitta più grande: il plebiscito dei cittadini che vanno a votare (anche quelli che scelgono il no) con percentuali sconosciute da decenni, nonostante il governo abbia deportato il referendum nel weekend più estivo possibile, lontanissimo dalle normali stagioni elettorali. È Berlusconi che non sa più parlare agli italiani, così come non li sa ascoltare, perché non li capisce più. E gli italiani gli hanno voltato le spalle.
Qui conviene fermarsi a riflettere, perché dove finisce Berlusconi comincia una nuova politica. Anzi, Berlusconi finisce proprio perché è nata una domanda di nuova politica, che sta cercandosi le risposte da sola, e in parte le ha già trovate. Se mettiamo in sequenza i tre voti ravvicinati del primo turno amministrativo, del ballottaggio e del referendum, troviamo una chiarissima affermazione di autonomia dei cittadini. Questo è il dato più importante. Il voto al referendum e il voto nelle città sono infatti prima di tutto disobbedienza al pensiero dominante. Di più: sono il rifiuto di una concezione verticale della politica, con il leader indiscusso ed eterno che parla al Paese indicando l´avvenire mentre il partito e il popolo possono solo seguire il carisma, che soffia dove il Capo vuole.
Vince una politica reticolare, a movimento, incentrata sui cittadini più che sulla adulazione del popolo. Cittadini consapevoli che aggirano l´invasione mediatica del Cavaliere sulle televisioni di Stato, mandano a vuoto l´informazione addomesticata dei telegiornali, si organizzano sulla rete, prendono dai giornali i contenuti che servono di volta in volta, fanno viaggiare in rete Benigni, Altan e l´Economist a una velocità e un´intensità che le veline del potere non riescono a raggiungere. Cittadini giovani, che fanno naturalmente rete e movimento, e in un sovvertimento generazionale e di abitudini diventano opinion leader nelle loro famiglie, portando genitori e amici a votare, chiarendo i quesiti, parlando dell´acqua e del nucleare, spiegando come il “legittimo” impedimento aggiri l´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
Dentro questo movimento orizzontale la leadership a bassa intensità (ma a forte convinzione) del Pd galleggia sorprendentemente meglio del Pdl, una specie di fortezza Bastiani che vede nemici dovunque, dipinge il Paese con colori cupi, nell´egotismo autosufficiente e chiuso in sé del suo leader è incapace di strategie, alleanze o anche soltanto di un normale scambio di relazioni politiche: che Bersani intesse invece ogni giorno alla luce del sole, con Vendola e di Pietro ma anche con Casini e Fini.
Questo spiega in buona parte perché i cittadini decidono oggi di indirizzare a sinistra la nuova domanda di autonomia politica: perché qui i partiti stanno imparando a stare dentro il movimento, giocando di volta in volta la parte della guida o della struttura di sostegno, al servizio di un obiettivo più grande. Ma c´è qualcosa di più. È la fine di un´egemonia culturale, perché come dice Giuseppe De Rita a Ida Dominijanni del Manifesto un ciclo finisce quando esplode la stanchezza per i suoi valori portanti: oggi si comincia a percepire «che la solitudine e l´individualismo non sono un´avventura di potenza ma di depressione e la sregolatezza personale è un prodotto dell´egocentrismo, in una fase in cui i riconoscimenti sociali scarseggiano, perché non fai più carriera, non riesci a fare impresa, non ti puoi gratificare con una vacanza». È il ciclo della “soggettività” che si spezza, anche per l´inconcludenza della politica che lo sostiene e ne ha beneficiato per anni. Torna, come ci avverte Ilvo Diamanti, il bisogno di aggregazione, di solidarietà, di regole, di normalità.
È un cambio di linguaggio, dopo vent´anni. Le manifestazioni delle donne, i post-it contro la legge bavaglio, il boom per Fazio e Saviano, l´allegria della piazza di Pisapia e Vecchioni a Milano contrapposta alla paura e alla cupezza stanno cambiando la cultura quotidiana dell´Italia, il modo di comunicare, l´immaginario che nasce finalmente fuori dalla televisione, la domanda stessa della politica. Davanti a questo cambio, le miserie dei burocrati spaventati che reggono la Rai per conto di Berlusconi sembrano ormai tardive e inutili: chiudono la stalla di viale Mazzini con l´unica preoccupazione di lasciar fuori Saviano e Santoro, per autolesionismo bulgaro, e non si accorgono che gli spettatori sono intanto scappati altrove.
Faceva impressione, ieri pomeriggio, vedere tanti politici e giornalisti pronti a celebrare il funerale politico di Berlusconi dopo che per anni si erano rifiutati di diagnosticare la malattia di questa destra, la sua anomalia. Stesso strabismo dei “nextisti” che invitano a preparare il domani pur di saltare il giudizio sull´oggi, il giudizio ineludibile – proprio per evitare opacità e confusione – sulla natura del berlusconismo. Questo spiega lo stupore italiano davanti ai giornali europei di establishment, che rivelano quella natura e denunciano quelle anomalie – come Repubblica fa da anni – giudicandole semplicemente estranee ad un normale canone europeo e occidentale. Ci voleva molto? Bisognava aspettare l´Economist? L´Italia della cultura, dei giornali, dell´establishment si è rifiutata di vedere e di capire, finché gli italiani non hanno visto e capito anche per lei. A quel punto, come sempre, si è adeguata in gran fretta.
Adesso, Berlusconi proseguirà con gli esorcismi e le sedute spiritiche cui lo consigliano i suoi fedeli, incapaci di imboccare la strada di un tea party italiano che ricrei un movimento anche a destra, riprenda la leggenda della “rivoluzione” conservatrice delle origini e spari su un quartier generale arroccato e spaventato, preoccupato solo di difendere rendite di posizione in conflitto tra loro. Sullo sfondo, Bossi continua a ballare da solo sulla musica di Berlusconi che il Paese non ascolta più, e intanto perde contatto con la sua gente, scopre che il Nord è autonomo anche dalla Lega, decide per sé e va a votare con percentuali dal 91 al 96 per cento, disubbidendo dalla Liguria al Trentino. Ancora una volta, come nel ´94, la sovrapposizione con Berlusconi soffoca la Lega: che alla fine staccherà la spina, portando anche il Parlamento – in ritardo – a sanzionare quel cambio di stagione che ieri hanno deciso i cittadini.

La Repubblica 14.06.11

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“Ora serve un progetto forte”, di Mario Calabresi

Questa lunga e imprevista primavera di cambiamento aveva fatto capolino già alla fine dell’inverno: era stata anticipata dalla mobilitazione delle donne, scese in piazza senza simboli di partito e in numeri stupefacenti, e sembrava aver avuto il suo apice con le amministrative e il voto dirompente di Milano e Napoli. Invece l’ultima sorpresa appare come la più forte e simbolica: più di 28 milioni di italiani sono tornati alle urne.

Nonostante il disinteresse delle televisioni, gli inviti ad andare al mare, la volontà del governo di non accorpare il referendum con le amministrative e la scelta di una data a metà di giugno (a scuole addirittura chiuse) più del 56 per cento degli elettori è andato a votare contro il ritorno del nucleare, per mantenere l’acqua pubblica e per non dare a Berlusconi uno scudo giudiziario capace di rinviare i processi.

Sono però convinto che non abbiano votato solo per questo, ma abbiano sfruttato l’ultima occasione possibile, prima delle vacanze, per mandare un altro messaggio forte e chiaro al governo. È evidente da settimane che il sentimento degli italiani è profondamente cambiato: prevalgono la stanchezza, la nausea, il fastidio per una politica che non ha nella sua agenda nessun tema che incrocia la vita dei cittadini e soprattutto il disincanto verso promesse che non sono mai state realizzate.

La raccolta delle firme per abolire la legge che privatizzava l’acqua, cominciata più di un anno fa, venne accolta con un certo distacco e scetticismo. La Stampa diede spazio al raggiungimento delle firme, che furono quasi tre milioni, perché quel giorno ci rendemmo conto che pur senza aver avuto spazio in televisione e poca visibilità sui giornali, il tema stava a cuore a molti italiani, che volevano fosse ascoltata la loro voce. L’idea però che la maggioranza degli italiani sarebbe andata alle urne sembrava appartenere alla fantascienza: troppe volte negli ultimi anni il referendum era apparso un’arma spuntata, uno strumento stanco e snobbato dagli italiani.

Invece la realtà è apparsa completamente diversa. La politica e anche i mezzi di comunicazione se ne sono accorti in grande ritardo perché i flussi di scontento e la voglia di cambiare hanno viaggiato velocissimi al di sotto dei radar tradizionali. La protesta ha usato mezzi non convenzionali: non si è affidata alle televisioni, ma ha scommesso su un mix di modernità e tradizione. Da un lato si è affidata alle nuove tecnologie e in particolar modo a Twitter e Facebook, dall’altro ha ricalcato le strade antiche del passaparola e dei banchetti allestiti in mezzo alla strada.

Due settimane fa, dopo le amministrative, avevamo scritto che Silvio Berlusconi ha perso il suo fiuto magico, la capacità di intercettare e interpretare gli umori profondi degli italiani. Il voto di ieri, preceduto dal suo invito a non votare, ad andare al mare, significa che il suo scollamento dalla pancia e dal cuore del Paese è sempre più ampio. Non solo, da tempo appare svanita anche ogni prudenza: chiunque gli avrebbe consigliato di non ripercorrere gli esatti passi di Bettino Craxi del 1991. Allora il leader socialista si lanciò nel boicottaggio di un referendum che lo avrebbe travolto. Chiunque, se il Cavaliere solo ascoltasse ancora qualcuno, avrebbe potuto spiegargli che anche tra i suoi elettori regna il disincanto: battute, provocazioni, promesse iperboliche e accuse agli avversari scivolano via con l’ultimo notiziario e non fanno più breccia. Le parole del premier, un tempo capaci di incantare, si dissolvono in un attimo e lo rendono sempre più debole.

E pensare che gli italiani non sembrano corsi alle urne per un tema come il legittimo impedimento, ma per l’acqua e il nucleare: lo hanno fatto pensando al futuro dei loro figli, lo hanno fatto perché, in tempi di precarietà e di incertezze, hanno rifiutato l’idea che anche l’acqua potesse diventare un bene privato e non più di tutti. Siamo in una fase di protesta in cui gli elettori, dove possono, smontano l’esistente e premiano tutto ciò che appare fuori dal sistema: non lo fanno solo i ragazzi o le frange estreme, ma anche i cittadini maturi che non sanno più come farsi ascoltare. Sbaglierebbe ora il governo se si ostinasse a sottovalutare questi segnali, se proseguisse con un programma di riforme che non parla dei bisogni di tutti noi ma solo di quelli di chi sta al potere.

Sarebbe però un errore anche pensare che tutta questa voglia di cambiamento, questo immenso giacimento di energie, bastino da soli a cambiare il quadro politico: il 56 per cento degli italiani che ha votato al referendum è di sinistra, di centro e di destra e oggi non sente di avere una rappresentanza. Perché il cambiamento non si trasformi soltanto in una protesta continua, ma trovi uno sbocco costruttivo, avrebbe bisogno di un progetto forte, capace di coagulare. Un progetto di cui oggi fatichiamo ancora a riconoscere i contorni.

La Stampa 14.06.11