attualità, politica italiana

"La spinta propulsiva è finita", di Federico Geremicca

E passi per i tanti militanti che affollano il pratone di Pontida vestiti da Alberto da Giussano, con mantello, spadone e tutto il resto, nonostante i trenta gradi all’ombra. E passi anche per quelli che sfoggiano elmi da unni o da vichinghi, con belle corna lunghe e arcuate. Ma quando in attesa dell’arrivo di Bossi il segretario della forte Lega di Bergamo chiama sul palco «i templari del bel fiume Serio» – e loro sul palco ci salgono davvero – allora il dubbio svanisce, e si può dire con certezza che da queste parti qualcosa non va: o almeno non va più. E non va più perché il folklore va bene quando adorna e rappresenta – come è stato fino a ieri – una linea corsara, furba e spesso fin troppo aspra; ma quando quella linea non c’è più, quando l’affanno è evidente e il Capo non ha una rotta da indicare alla sua gente, allora non resta che il folklore: e di folklore anche una forza come la Lega, ben radicata nelle valli di quassù, lentamente può morire.

Forse è questo, al di là degli ultimatum veri o presunti spediti all’indirizzo di Silvio Berlusconi, il messaggio che arriva da Pontida: il vecchio Carroccio è nei guai, fermo e incerto sulla via da imboccare perché scosso e stupito – forse perfino più del Pdl – dal doppio capitombolo elezioni-referendum. La battuta d’arresto ha lasciato cicatrici profonde in un partito non abituato alla sconfitta: e la reazione, a cominciare dal gran raduno di ieri, non sembra affatto all’altezza dei problemi che ha di fronte. E’ come se, gira e rigira, la Lega avesse esaurito la propria spinta propulsiva, fosse d’improvviso a corto d’argomenti e a nulla servisse – anzi – riproporre gli stessi con più enfasi e più durezza.

E’ un problema non da poco perché – al di là delle tattiche su quando e come votare – riguarda il futuro stesso del movimento. Ed è un problema – alla luce di quel che si è visto e sentito ieri a Pontida, tra bandieroni e facce dipinte di verde – che la Lega farebbe bene ad affrontare. Dovrà chiedersi, per esempio, quale ulteriore forza espansiva può avere un movimento che chiede la fine dei bombardamenti in Libia non perché lì continuino a morire donne e bambini, ma perché costano troppo e poi finisce che arrivano nuovi immigrati a Ponte di Legno o a Gallarate. O che ha individuato l’approdo della Grande Guerra a Roma ladrona nella richiesta che almeno qualche ministero, anche di serie B, venga trasferito al Nord. Si può crescere ancora con slogan e obiettivi così? Forse nelle valli. O lungo le sponde di fiumi custoditi dai templari… Ma già se si guarda a Milano, moderna capitale del Nord, occorrerebbe interrogarsi sul perché alle ultime elezioni solo un cittadino su 10 ha deciso di votare Lega.

Quella della modernità – modernità di linea, di organizzazione e di idee e proposte per il Paese – è un’altra questione che ieri a Pontida è saltata agli occhi in maniera ineludibile. Sembra paradossale dirlo della Lega che al suo irrompere sulla scena modernizzò non poco in quanto a temi (quello della sicurezza nelle città, per dirne uno) e perfino in quanto a proposte istituzionali (il federalismo): ma ieri il folklore e il richiamo all’identità, utilizzati per supplire all’assenza di linea, sono apparsi d’improvviso vecchi, inattuali e quasi figli di un’altra epoca. Tra un supermercato e un nuovo grande parcheggio, la modernità sta letteralmente (e simbolicamente) mangiandosi il pratone di Pontida: e a fronte dei tanti cambiamenti, la Lega risponde riscoprendo la secessione (tema degli esordi), l’identità padana e inasprendo la lotta ai clandestini (triplicato il tempo di internamento nei Cie). Difficile andar lontano, così. E difficile anche – se non in virtù dei meri numeri – mettere davvero spalle al muro l’amico-nemico Berlusconi.

Se serviva una controprova di quanto fosse ormai logorato il rapporto tra la Lega e il premier, ieri la folla di Pontida – una gran folla, come solo nei momenti di grandi vittorie o di grandi difficoltà – l’ha fornita. Fischi ogni volta che veniva citato il suo nome, grandi striscioni per invocare «Maroni premier». Bossi ha definito la leadership di Berlusconi alle prossime elezioni «non scontata»: ma si è dovuto fermare lì, avendo chiaro che una parola in più lo avrebbe spinto in un vicolo al momento del tutto cieco. Il punto è che la base leghista – antiberlusconiana per ragioni quasi antropologiche e caricata per anni a pallettoni fatti di slogan duri e modi spicci – digerisce sempre peggio certe prudenze (obbligate) del Gran Capo. E’ a Berlusconi, alle sue ossessioni giudiziarie e ai suoi bunga bunga che vengono infatti attribuite le sconfitte dolorose non solo di Milano ma di Comuni-simbolo nell’iconografia leghista, da Gallarate a Desio, fino a Novara. A fronte di questo, la prudenza dei capi è sempre meno accettata, e molti non nascondono di avercela anche con chi, nella Lega, si sarebbe «romanizzato»…

Un’immagine, ieri, ha colpito molti dei cronisti accorsi a Pontida. E’ accaduto quando, poco prima dell’arrivo di Bossi sul palco, volontari del servizio d’ordine leghista hanno sequestrato e poi minuziosamente sbrindellato un lungo striscione bianco con delle frasi vergate in nero: «Datevi un taglio. Abolite le Province e dimezzate il numero dei parlamentari. Ce lo avevate promesso». Una contestazione figlia dei furori del passato, certo; e frutto, magari, di quelle compatibilità politiche che nessun capo leghista, nelle valli, ha mai spiegato ai militanti della base e ai templari che vigilano sul fiume Serio… Un problema, anche questo. E a giudicare da certi umori, nemmeno semplicissimo da affrontare.

La Stampa 20.06.11

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“Le due Leghe indecise a tutto”, di ILVO DIAMANTI

A Pontida, ieri, si sono affrontate e specchiate le due Leghe che coabitano sotto lo stesso tetto. Dentro lo stesso partito. Spesso, dentro le stesse persone. Se ne è avuta una rappresentazione esplicita, quasi teatrale, osservando la scena della manifestazione. Da una parte, la Lega di lotta e di protesta. I militanti ammassati sul prato. A gridare, senza sosta: “Secessione! Secessione!”. Dall´altra, sul palco, la “Lega di governo”.
I leader. Chiamati, a uno a uno, per nome e cognome. E “per carica”. Ministri, viceministri, presidenti di Regione e dei gruppi parlamentari. Da ultimo, il Primo. Il Capo. Umberto Bossi. L´icona che tiene unite le due Leghe. Movimento e istituzione insieme, per usare le categorie weberiane rilette da Francesco Alberoni. Il “movimento rivoluzionario” indipendentista e il “partito normale”, istituzionalizzato. Sempre più difficili da riassumere. Soprattutto oggi. Ne ha risentito anche la comunicazione del Capo. Normalmente semplice, fino all´eccesso. Ma chiara e netta. Stavolta meno del solito. Ha espresso i contenuti cauti, della Lega di governo con il linguaggio esplicito della Lega di lotta. Alla congiunzione fra le due Leghe, l´idea del Sindacato del Nord. Che tutela gli interessi “padani”.
Da ciò l´attenzione, ampia e appassionata, dedicata da Bossi agli allevatori e alla loro lotta. Ma anche ai contadini. Testimoni della “terra”, il mito che ispira la Lega e la sua fede padana. Da ciò anche la minaccia, più che l´invito, al governo e a “Giulio” (Tremonti). Affinché abbassino le tasse che colpiscono soprattutto i “ceti produttivi” del popolo padano. Artigiani, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori. Anche la polemica di Bossi, rilanciata da Maroni, contro l´intervento armato in Libia, viene tradotta in questa chiave. Più delle ragioni umanitarie preoccupano le ragioni della sicurezza. Del Nord. Minacciato dall´invasione dei poveri cristi in fuga dai bombardamenti.
La Lega di lotta e di governo, tuttavia, faticano a stare insieme, a Pontida. Qualche volta stridono. Ai militanti di Pontida che gridavano “Secessione! Secessione!”, Bossi ha risposto promettendo – più modestamente – di decentrare alcuni ministeri nel Nord. Più precisamente: a Monza. I dicasteri guidati da lui stesso e Calderoli, intanto. Invitando Maroni e lo stesso Tremonti ad aggregarsi. D´altronde, ha aggiunto, il ministero dell´Economia deve stare dove si produce. Non a Roma. Spostare i ministeri a Monza serve, infatti, a marcare il distacco dallo Stato Centrale. E a valorizzare, per contro, la Capitale del Nord. Che gravita intorno a Milano. D´altronde, dopo le elezioni amministrative, la Padania ha perduto la capitale. E la Lega è stata spinta ulteriormente in provincia.
Anche gli avvertimenti a Berlusconi – fischiato dai militanti ogni volta che ne veniva pronunciato il nome – rispondono al sentimento della “Lega di opposizione”. Berlusconi – ha detto e ripetuto Bossi – non sarà necessariamente il candidato premier. D´altronde, i militanti, esibendo striscioni da stadio, inneggiavano a “Maroni premier”.
Il messaggio è chiaro. Berlusconi, verrà sostenuto dalla Lega solo se rispetterà gli interessi e le rivendicazioni del Sindacato del Nord. Pensieri, parole – e parolacce – a cui, tuttavia, difficilmente seguiranno i fatti. Perché queste rivendicazioni del Sindacato del Nord, per quanto “moderate”, appaiono poco praticabili.
Proporre di decentrare alcuni ministeri a Nord è ben diverso che minacciare la secessione. Ma si tratta, comunque, di un progetto difficile da realizzare. Significherebbe svuotare l´idea – e la realtà – di “Roma Capitale”. Divenuta tale con un decreto votato dalla stessa Lega. Lo stesso discorso vale per la riforma fiscale e le altre iniziative volte ad alleggerire – o almeno controllare – il debito pubblico. Difficile immaginare che possano avvenire a spese, prevalentemente, dei ceti sociali e delle aree del Mezzogiorno. Roma Capitale e la Regione Lazio sono governate dal Pdl. Il Centrosud garantisce il bacino elettorale maggiore del Pdl. La Lega dovrebbe, a questo fine, rompere con Berlusconi e il suo partito, come nella seconda metà degli anni Novanta. Dovrebbe ascoltare il popolo di Pontida che grida: “Secessione! Secessione!”. Impensabile. Perché incombe ancora la sindrome del ´99. Quando la Lega secessionista, da sola, si ridusse a poco più del 3%. Abbandonata dai “forzaleghisti”, come li definì Edmondo Berselli. Gli elettori che votano ora Lega ora Forza Italia (e ora Pdl) su basi tattiche.
Per questo Bossi lancia parole di lotta, ma poi usa argomenti di governo. Sorretti da ragioni ragionevoli. Guardate che non basta schiacciare un bottone per cambiare, ripete il Capo. Guardate che non possiamo fare cadere il governo e non possiamo neppure andare al voto. Oggi. Non conviene. Il «ciclo storico (ha detto proprio così) è cambiato. Ci è sfavorevole. Vincerebbe la Sinistra».
Ma poi, aggiungiamo noi, non sarebbe facile neppure a Bossi convincere il suo partito ad abbandonare il governo – e il sottogoverno. Per ragioni interne. Costringere alle dimissioni i suoi ministri e i suoi viceministri. E tutti i suoi uomini inseriti nelle istituzioni, nei centri di potere economico, finanziario, pubblico e radiotelevisivo. Sarebbe difficile perfino a lui, il Capo. Anche proclamare la secessione. Da Roma. Non solo perché la stragrande maggioranza degli elettori del Nord, compresi i suoi, non la accetterebbe. Ma perché la rottura della maggioranza a livello nazionale avrebbe rilevanti conseguenze locali. Visto che la Lega, nel Nord, governa in due Regioni, molte province e centinaia di comuni. Insieme al Pdl.
Difficile, infine, pensare che una Lega di governo, cresciuta tanto e tanto in fretta nel Nord, non sia attraversata da divisioni interne. Come avviene in tutti i partiti “normali”. Che la proposta dei ministeri a Monza non abbia suscitato disagio nel Nordest e soprattutto in Veneto. Che le ovazioni a “Maroni premier” non abbiano messo di cattivo umore Calderoli. E magari anche qualcun altro.
Per questo le parole di Bossi e il rito di Pontida non hanno offerto indicazioni chiare sul futuro. La Lega di opposizione vorrebbe correre da sola. Contro tutti. La Lega di governo non ci pensa proprio. Il Sindacato del Nord pone alla maggioranza condizioni che il Pdl non può accettare. Nessuno è abbastanza forte per imporsi. Né per rompere. Così il governo – e il Paese – sono destinati a navigare a vista. Finché ci riusciranno.

La Repubblica 20.06.11

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Berlusconi tira un sospiro di sollievo “Non c´è alternativa al mio governo”, di Carmelo Lopapa

“Rotto il patto tra Umberto e Tremonti”. In autunno la resa dei conti. Nella “verifica” di domani il capo del governo recepirà le richieste leghiste e chiederà la fiducia
Il Cavaliere è pronto a cedere solo sulle “sedi di rappresentanza” dei dicasteri. «Umberto ha mantenuto gli impegni, andremo avanti fino al 2013». Silvio Berlusconi tira un sospiro di sollievo davanti alla tv nel salotto di Arcore. Bossi ha appena concluso il proclama da Pontida, governo e Pdl vacillano sotto i diktat leghisti, al premier viene preannunciato il tramonto della sua leadership, per il Cavaliere però è un disco verde. E si prepara a passare all´incasso a metà settimana con la verifica in Parlamento. Resta il timore di fondo che la resa dei conti, quella vera, sia «solo rinviata all´autunno».
Davanti alle telecamere è sereno: «Si è verificato quello che Bossi mi aveva annunciato, la conferma che la nostra alleanza non ha alternative e che c´è la volontà di proseguire la legislatura» spiega il presidente del Consiglio quando esce a fine giornata dal Niguarda di Milano, dopo la visita al militare ferito in Afghanistan. E poco conta che quelli di Bossi siano stati già definiti dalla “Padania” come l´«Ultimatum al governo». Berlusconi quell´ultimatum è pronto ad accoglierlo, pur di andare avanti. «Al Senato e alla Camera illustrerò il programma che comprenderà anche alcune delle richieste che sono state esplicitate da Bossi». Ci sarebbe anche il trasloco di tre o quattro ministeri al Nord, tra i balzelli imposti dal Carroccio e sufficienti a far saltare i nervi ai romani del Pdl, da Alemanno alla Polverini. Ecco, anche su quello Berlusconi è convinto di poter trovare la «quadra». Che passerebbe – stando a quanto trapela dalla nuova segreteria del partito – attraverso «sedi di rappresentanza operative» dei ministeri in questione. Come dire, uffici con segretaria al seguito dai quali i ministri «padani» potranno, se vorranno, prendere anche le loro decisioni. Ma la storia si chiude lì, i dicasteri, coi loro impiegati, resteranno a Roma. Per il resto, il programma che il Cavaliere promette è «impegnativo» e servirà per affrontare «una crisi che non è ancora finita», ammette. «Non abbiamo alcun dubbio sul fatto che la maggioranza in Parlamento mantenga la fiducia, quindi andremo avanti». La fiducia si voterà domani a Montecitorio sul decreto Sviluppo. Ma nel Pdl si sta facendo largo l´ipotesi di un documento di sostegno al premier dopo le sue dichiarazioni alle Camere sulla verifica di governo, per incassare un secondo via libera nella stessa settimana. «Darebbe una buona spinta» è la tesi del pidiellino lombardo Gregorio Fontana. Quel che interessa a Berlusconi è tirare fino al 2013. «Oggi l´Italia richiede di essere governata, richiede stabilità – prosegue nella sua analisi in serata – Le elezioni di medio termine hanno fatto pagare anche a noi il dazio della crisi, ma questo non significa che si debba interrompere il governo e la legislatura, significa soltanto che bisogna proseguire con un´azione più incisiva», prova a rassicurare.
Al capo del governo non è sfuggito il passaggio sul 2013 e sul sostegno tutt´altro che scontato del Carroccio alla sua leadership. È il preannuncio di un divorzio che nella peggiore delle ipotesi potrebbe portare fino alla rottura della coalizione. Ma al netto dei «toni da comizio di Umberto», come li ha definiti Berlusconi commentando coi suoi, c´è tutta la soddisfazione per il pressing leghista su Tremonti. «Si è spezzato l´asse tra Giulio e la Lega» dice in privato il premier a proposito delle parole di Bossi sulla necessità di una riforma del fisco in tempi rapidi: «La parte più dura del discorso Umberto l´ha dedicata a lui». La sensazione del presidente del Consiglio, insomma, è che a questo punto il ministro dell´Economia sia pressoché all´angolo. Con due incognite non secondarie, tuttavia. La reazione dei mercati, questa mattina, dopo l´avvertimento dell´agenzia di rating Moody´s sul debito pubblico italiano. Quindi, le pressioni dell´Eurogruppo sul governo per accelerare i tempi della manovra da lacrime e sangue (40 miliardi). Due fattori che potrebbero far gioco al ministro di via XX Settembre nella sua «resistenza» a oltranza sul taglio alle tasse.
Sarà la partita dei prossimi giorni. Come lo sarà, in casa Pdl, la fronda che sta maturando alla vigilia del Consiglio nazionale del primo luglio. La guerra dichiarata da Alemanno e dalla Polverini alla Lega, vista dai vertici del partito, ha tutta l´aria di preparare uno strappo da qui all´estate. Il sindaco di Roma in queste settimane sta lavorando di diplomazia con Claudio Scajola e con Roberto Formigoni. I suoi raccontano che il punto si farà a fine luglio, in occasione dell´assemblea della sua fondazione. I tempi a quel punto potrebbero essere maturi per un nuovo scisma. L´ennesimo.

La Repubblica 20.06.11