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"La previdenza femminile del futuro", di Morena Piccinini

Sebben che siamo donne, paura non abbiamo… così recitava una canzone popolare a fine ‘800. Ebbene, ancora oggi nel 2011 dobbiamo continuare ad affermare che non abbiamo paura!
Non abbiamo paura della precarietà, non abbiamo paura di mettere in secondo piano il lavoro per accudire i figli e del difficile reinserimento successivo, della differenza di salario prima e di pensione poi fra donne e uomini, insomma, non abbiamo paura ad essere donne. Se pensiamo al passato, ci rendiamo conto che le donne hanno sempre avuto non solo difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro, ma anche a conservare il lavoro in presenza di un doppio carico, di lavoro e familiare. L’organizzazione del lavoro spesso comporta la considerazione del lavoro femminile come ancillare, non solo nel rapporto familiare ma in ugual modo nelle relazioni lavorative. Non a caso gli uomini erano solitamente salariati fissi e le donne erano invece avventizie ed il lavoro a domicilio era una prerogativa femminile, così come il lavoro domestico era ed è esclusivamente
femminile. Ma non solo. In passato la differenza dell’età nell’accesso al pensionamento, e anche qualche elemento di miglior favore per l’integrazione al trattamento minimo, non erano derivati da un riconoscimento di tipo esclusivamente assistenzialistico, ma costituivano una sorta di riconoscimento postumo a questo gap che le donne in particolare subivano nella loro vita lavorativa.
Tutto questo ci porta a chiederci cosa sarà della previdenza femminile del futuro, in un contesto lavorativo e di norme pensionistiche che determineranno un peggioramento delle condizioni, consegnandoci fra vent’anni una situazione pensionistica vicina ai livelli assistenziali.

Valutando tutto ciò che sta evolvendo, le preoccupazioni non diminuiscono, ma aumentano. Le riforme succedutesi dagli anni ’90 in poi hanno cambiato le condizioni pensionistiche e previdenziali per tutti, ma soprattutto hanno chiesto un sacrificio consistente alle donne perché l’innalzamento dell’ anzianità necessaria per l’accesso alla pensione coniugata con l’innalzamento dell’età è indubitabile che ha pesato di più sulle donne.
Avevamo visto nella riforma Dini anche l’introduzione di parziali correttivi a questo irrigidimento che nel processo legislativo precedente si era venuto a creare. Correttivi nel senso che accanto alle condizioni paritarie tra uomo e donna nell’accesso al pensionamento, veniva, al contempo, ripristinata un’idea di flessibilità, perché soprattutto il lavoro femminile ha bisogno di flessibilità nei tempi di lavoro, nelle modalità del lavoro, ma anche nella possibilità di uscita per pensionamento, in modo da poter meglio rispondere alle esigenze personali e familiari. Quello che avevamo salutato positivamente con la riforma Dini, ora lo stiamo vedendo compromesso con la legge attuale che intaccato proprio quella flessibilità in uscita che era il cardine delle riforme degli anni ’90, che peraltro non pesa assolutamente sul sistema previdenziale e sul suo equilibrio finanziario, dal momento che il rendimento pensionistico è calcolato in modo inversamente proporzionale all’aspettativa di vita al momento del pensionamento. Il peso di questi provvedimenti sulla condizione femminile è molto grave: significa di fatto la eliminazione della possibilità per le donne di accedere alla pensione di anzianità, con la equiparazione dell’età per la vecchiaia con la soglia minima di età per il pensionamento, aggravato dal fatto che ancora oggi sono pochissime le donne che possono raggiungere i 40 anni di anzianità prima dell’età pensionabile. Si manifesta così un atteggiamento che, nel nome di una parità mal interpretata, di fatto diventa particolarmente punitivo proprio verso le donne.

Oltretutto, oggi, il lavoro femminile non si può dire sia in una condizione sia quantitativa che qualitativa soddisfacente, e tutto ciò avrà ripercussioni anche sulla condizione pensionistica futura. In passato, e fino ad ora, queste difficoltà sono state solo parzialmente superate dall’istituto della integrazione al trattamento minimo, istituto che il sistema contributivo a regime non prevede più. Se vogliamo evitare di ragionare solo di quali possibili interventi assistenziali o simili, a valle di una difficile storia lavorativa, abbiamo bisogno di ragionare su come il lavoro possa essere sostenuto anche dal punto di vista previdenziale nel corso del suo svolgimento, soprattutto per quanto riguarda il lavoro femminile nel rapporto con il lavoro di cura e nel rapporto con quelle professioni più povere che ancora oggi sono prevalentemente professioni ricoperte da donne.
Sento dire sempre più spesso che le donne, oggi, riescono ad entrare nel lavoro anche attraverso forme di lavoro flessibile, ma non è così. La nostra legislazione penalizza esattamente queste forme di lavoro. Abbiamo salutato positivamente la legge 53 in materia di congedi parentali, ma oggi non solo registriamo come sia diventato più difficile usufruirne per effetto di una maggiore precarietà nelle forme di lavoro, ma come quegli stessi permessi siano poi resi ancor più inaccessibili dalla mancanza o insufficienza di copertura figurativa ai fini pensionistici, con conseguenze previdenziali non indifferenti proprio per quelle donne che si vorrebbero agevolare.
Per non parlare poi dell’ennesima proposta di aumentare l’età pensionabile a 65 anni per le donne del settore privato, proposta che si configurerebbe come una mannaia sociale che verrebbe ad aggiungersi alle tante altre discriminazioni che pesano sulla vita lavorativa e sociale delle donne. Quindi, non dobbiamo aver paura di continuare a combattere per avere una legge previdenziale che si possa adattare anche alla specificità del lavoro femminile.
Peraltro “Se non ora, quando?”

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