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"Tav, il riformismo passa dalla Val di Susa", di Sergio Chiamparino*

Caro direttore, lo Stato italiano, se vuole, c’è. Lo ha dimostrato con la mite determinazione messa in campo per sgomberare i blocchi con cui si voleva impedire l’avvio dei cantieri per la Tav in Val di Susa. Lo ha affermato contro chi pensa in barba ad ogni regola di democrazia e di rispetto delle opinioni e delle decisioni della maggioranza del Paese di poter essere, come recitava uno degli ultimi cartelli no Tav: «padroni a casa nostra», come se l’Italia fosse un vestito d’Arlecchino in cui ognuno possiede il proprio spicchio. L’egoismo è deleterio comunque, non importa se milita sotto bandiere verdi o rosse.

Grazie alle forze dell’ordine che con estrema professionalità hanno respinto pesanti provocazioni ed hanno costretto gli autonominati liberi cittadini «della Maddalena» a ripiegare con le pive nel sacco. E grazie a tutta la «filiera» del coordinamento dell’operazione, dal questore al prefetto al ministro. Stanno anche emergendo le differenze fra la stragrande maggioranza dei valsusini che può anche essere, legittimamente, contraria alla Tav, ma è democratica e non violenta, e, viceversa, l’estremismo di frange che nulla hanno a che vedere con la valle né con la Tav, al punto che persino alcuni «duri» dei centri sociali torinesi sono apparsi spiazzati.

Ora, naturalmente, non si può pensare che un’opera di questa natura e di questa durata possa essere realizzata con un dispiegamento permanente così massiccio di agenti. Dopo la consegna del cantiere esplorativo che dovrebbe convincere l’Unione Europea della volontà dell’Italia di rispettare tempi già troppo lunghi, devono tornare in primo piano la politica e l’amministrazione.

I governi, quello nazionale soprattutto per accompagnare più efficacemente l’azione dell’Osservatorio e dei governi locali che in questi anni ha permesso di tenere conto di molte richieste provenienti dal territorio, che, però, non sempre, sono state tempestivamente trasformate in azioni amministrative ed in finanziamenti.

La politica per affermare nettamente, più di quanto si sia fatto finora, tre cose. La prima che è eticamente, prima ancora che istituzionalmente, necessario che lo Stato affermi il rispetto delle regole tanto più quando coinvolgono altri Stati ed il rispetto della volontà delle maggioranze. In altri termini, l’interesse generale costruito in decenni (non anni!) di discussioni deve prevalere sui particolarismi. Ed affermare con nettezza che non esiste un interesse generale ed una legalità autoproclamate da una minoranza come se, parafrasando una ben nota affermazione, interesse generale e legalità si pesassero e non si contassero.

La seconda che la Tav non è un mostro ma assai semplicemente il modo con cui si fanno le ferrovie a media e lunga percorrenza nel XXI secolo. Meno energivore e più veloci perché grazie alle tecnologie di scavo non c’è più bisogno di salire a 1500 metri per forare una montagna. Un po’ come gli elettromotori hanno sostituito le vaporiere nel XX secolo.

Terza, infine, che questa è soprattutto una sfida fra chi pensa che possa esistere un percorso di crescita sostenibile in Paesi di antica industrializzazione come l’Italia, e chi ritiene che l’unica strada sia, nei fatti, la decrescita ovvero la gestione del declino. Ed è dunque più che mai, anche simbolicamente ormai, un tema che decide a sinistra ma anche a destra, su qualità e credibilità di un programma di governo. Si potrebbe dire che per tutti il riformismo passa dalla Val Susa.

* Ex sindaco di Torino

La Stampa 01.07.11

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“Tav, il futuro non passa da quella linea”, UGO MATTEI * LIVIO PEPINO **

Caro Direttore, Poche ore prima dell’«apertura» del cantiere a Chiomonte abbiamo organizzato un appello alla politica e alle istituzioni per evitare, in Val Susa, l’uso della violenza. L’appello non è stato accolto ed hanno vinto fin qui le ragioni della forza.

Ma la partita non finisce qui. Il movimento No Tav, radicatissimo in Val Susa e sempre più rappresentativo del clima culturale nuovo che si respira nel Paese, continuerà a fare la sua parte. Lavorare in queste condizioni avrà costi sociali insostenibili. Da giuristi e cittadini riteniamo quindi doveroso continuare a difendere le ragioni del buon senso e delle generazioni future contro la legge del più forte. A tal fine poniamo alcune domande circa il progetto Tav concepito oltre vent’anni fa per assecondare un modello di sviluppo che, col voto referendario, una maggioranza del Paese ha detto di voler ripensare.

1. La linea ferroviaria ad alta capacità TorinoLione servirà – si dice – ad assicurare che Torino e l’Italia non siano tagliate fuori dall’Europa nel trasporto delle merci. Ora, è vero o non è vero che l’attuale linea internazionale a doppio binario, che corre nella valle utilizzando il traforo del Fréjus, è tuttora perfettamente operativa e utilizzata al di sotto del 30% delle sue potenzialità? Ed è vero o non è vero che tutti i dati degli ultimi anni dicono che il traffico merci lungo l’asse Francia-Italia è in calo? E, dunque, in forza di quali previsioni si ritiene che questo trend sia destinato a subire una inversione nei prossimi anni? E perché non potenziare la linea esistente (la cui minore velocità non è certo decisiva per il trasporto di merci), rinegoziando, come altri Paesi hanno fatto, i possibili contributi europei? I minuti di percorrenza nel trasporto delle persone che si potranno risparmiare fra 25 anni a progetto realizzato potrebbero essere tagliati oggi a costo zero riorganizzando i controlli che arrestano i treni per oltre mezz’ora a Modane.

2. I costi della nuova linea ferroviaria sono stimati in 16-17 miliardi di euro, da impiegare nei prossimi dieci anni, e il famoso contributo europeo è una parte minima. Ora, anche a prescindere dal fatto che non c’è grande opera nel nostro Paese i cui costi non siano lievitati strada facendo, la domanda è inevitabile: in tempi di crisi economica come gli attuali dove si pensa di trovare quei fondi?

3. La linea ferroviaria ad alta capacità consentirà – si afferma – uno spostamento del traffico merci dalla gomma alla rotaia, notoriamente meno inquinante. Siamo proprio sicuri che la realizzazione un’opera colossale, con oltre 70 chilometri complessivi di gallerie, vent’anni di lavori e di cantieri, un numero incalcolabile di viaggi di camion, enormi materiali di scavo (ricchi di uranio e di altre sostanze nocive) da smaltire e il corrispondente consumo di energia non finirebbero per vanificare i vantaggi del trasferimento finale dal trasporto stradale a quello ferroviario?

4. La costruzione della «grande opera» – si ripete – darà lavoro e benessere alla valle e a tutta l’area circostante. Ma ne siamo davvero sicuri? Non si era detto altrettanto per l’Olimpiade invernale del 2006 che ha interessato la stessa valle? Non sarebbe più utile cominciare dal risanamento del territorio, dalla messa a punto delle risorse idriche, dalla tutela del patrimonio artistico? E siamo certi che progetti del genere non avrebbero adeguato sostegno a livello europeo?

5. Da quando si è cominciato a parlare della ferrovia ampi settori della popolazione locale (e i loro rappresentanti, i sindaci) hanno chiesto confronti pubblici e predisposto, con l’aiuto di tecnici di livello internazionale, proposte alternative. Ora, è vero o non è vero che questo confronto è stato eluso e che si è accettato di discutere solo sul come realizzare l’opera e non anche sulla sua effettiva utilità?

L’adattarsi con umiltà alle circostanze che cambiano ci pare segno di intelligenza politica e lungimiranza. Fermiamoci!

* Professore di Diritto civile all’Università di Torino
** ex Magistrato

La Stampa 01.07.11