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"Cibo, il mondo ha riserve soltanto per 116 giorni", di Roberto Giovannini

Le riserve Nel 2002 erano il 29,9% del consumo annuo. Oggi siamo solo al 21%. La sopravvivenza di un essere umano richiede 1.800 chilocalorie al giorno. Il livello nei silos è ai minimi mentre riparte la speculazione sulle terre e i biocarburanti. Millesettecentocinquant’anni prima di Cristo gli Egizi accumulavano in appositi depositi riserve di grano e altri cereali. Nel 498 avanti Cristo, la dinastia imperiale cinese degli Zhou orientali costruì degli immensi granai pubblici, acquistando al prezzo «normale» quando i raccolti erano abbondanti, e i prezzi erano bassi, e rivendendo allo stesso prezzo «base» in caso di carestia e prezzi elevati. Anche i Romani misero in piedi un sistema simile per calmierare il prezzo degli alimenti. Quello che fecero egizi, cinesi e romani – invece – non lo facciamo noi oggi. Anche se la sfida di alimentare quasi 7 miliardi di esseri umani è sempre più titanica, anche se una o due stagioni consecutive di raccolti negativi – come avvenne nel 2007-2008 – uccidono decine di milioni di persone e gettano nel baratro della fame e della povertà altre centinaia di milioni, non esiste un sistema coordinato a livello mondiale per gestire le riserve di cibo in modo efficace per arginare le crisi alimentari.

Al recente G20 dell’Agricoltura, in Francia, ad esempio, le proposte per bloccare il land grabbing (l’accaparramento di terre nei Paesi in via di sviluppo da parte di società o stati del mondo ricco), per controllare i biocarburanti, o per utilizzare gli stock di alimenti per contenere la volatilità dei prezzi sui mercati agricoli sono state sostanzialmente accantonate.

Ci si dovrà accontentare di altri studi di fattibilità (gli ennesimi) in vista delle prossime riunioni internazionali. Come spiega Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid Italia, «siamo ancora molto lontani dall’adozione di politiche capaci di riportare stabilità nei mercati agricoli e garantire la sicurezza alimentare». Intanto soltanto nel 2009 in Africa sono state accaparrati terreni pari alla superficie dell’intera Francia da fondi speculativi o sovrani; per i sussidi agli agricoltori dei paesi Ocse si spendono 385 miliardi di dollari, 80 volte gli aiuti allo sviluppo all’agricoltura. E quasi un miliardo di persone vivono in condizioni di fame. C’è solo da sperare che le previsioni della Fao – che stima per il 2011-2012 un aumento della produzione di alimenti e un lieve alleggerimento della pressione sui prezzi agricoli – si rivelino esatte.

Certo è che presto o tardi di un uso coordinato delle riserve alimentari si dovrà tornare a discutere. Coordinato, perché le riserve esistono anche oggi: come è sempre stato nella storia dell’umanità, sono proprio i cereali (grano, riso, mais, soia, miglio, sorgo e così via) gli alimenti che insieme ad altri minori dal punto di vista delle quantità (olii di semi o da piante, latte in polvere, pesce o carne conservata) possono essere manipolati e accumulati per periodi più o meno lunghi prima che siano danneggiati e inutilizzabili. Ovviamente, conservare cereali ha un forte costo: secondo le stime Unctad, ogni anno il costo di mantenere una riserva di cereali è pari al 15-20% del suo valore. Una quantità sconfinata di soldi. Attualmente secondo la Fao le riserve mondiali (pubbliche, cioè statali, o di privati) di cereali ammontano a 493,9 milioni di tonnellate (182,9 di grano, 167,7 di mais e altri cereali per alimentazione animale, 143,3 di riso). Sembra molto in confronto a una produzione mondiale di 2314,9 milioni di tonnellate (673,6 di grano, 1165,4 di mais e altri grani per l’alimentazione animale, 475,5 di riso). Ma se nel 2002 le riserve rappresentavano il 29,9% dell’utilizzo planetario di cereali (rispettivamente 578,2 milioni di tonnellate contro una produzione di 1907,9 milioni di tonnellate) oggi questo rapporto, che indica la «rete di protezione» per l’umanità, è sceso al 21%.

È vero che a parte l’elevato costo di mantenimento, le riserve di alimenti spesso producono effetti di distorsione dei mercati, penalizzando certe produzioni e certi produttori. E – soprattutto – aprono la strada a tremendi fenomeni di corruzione e malagestione. Specie in certi paesi poveri dove anche gli aiuti internazionali vengono incamerati dalle élites corrotte che controllano il potere. Non è un caso se negli anni 80 molti sistemi nazionali di gestione delle riserve vennero abbandonati. Vero è che come spiega un recente rapporto di Oxfam, se nel 2007-2008 fossero state messe sul mercato 105 milioni di tonnellate di cereali, al costo di 1,5 miliardi di dollari, il boom dei prezzi sarebbe stato bloccato. Una bella spesa in cifra assoluta, non c’è che dire. Ma soltanto 10 dollari a testa per ognuno dei 150 milioni di umani travolti dalla fame per colpa di quella crisi. Tra l’altro, già oggi esistono riserve «anticrisi» in paesi come Cina, India, Brasile, Indonesia, Mali, Canada e Malawi. E altri 35 (Burkina Faso, Cambogia, Camerun, Etiopia, Kenya, Nigeria, Pakistan e Senegal tra questi) le hanno attivate durante l’emergenza alimentare del 2007-2008.

La richiesta delle Ong – ActionAid, Oxfam, e molte altre – supportate da studi della Fao è quella di varare un sistema efficiente e «pulito» di riserve su base regionale, in grado di cooperare tra loro in caso di bisogno. Ancora, gli acquisti dovrebbero privilegiare i piccoli produttori e le colture sostenibili, aiutando così lo sviluppo di un’agricoltura più moderna e migliorando la condizione di milioni di poveri. Anche stavolta, però, i «Grandi» hanno rinviato la decisione.

La Stampa 04.07.11

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“Energia, sta per scoppiare la Guerra dei Trent’anni” di MICHAEL T. KLARE

La produzione del petrolio facile da estrarre comincerà a calare tra pochissimi anni. Il greggio “non convenzionale” costa molto di più e comporta rischi enormi, come in Louisiana. Da qui al 2040 petrolio e carbone andranno in crisi. Chi saprà sostituirli dominerà il mondo
Una guerra lunga trent’anni per il controllo dell’energia? Nessuno se l’augurerebbe, neanche in condizioni disperate. Ma purtroppo siamo arrivati a questo punto e non c’è modo di tornare indietro. Secondo molti storici, l’attuale assetto geopolitico degli Stati nazionali ha origine dal trattato di Vestfalia che nel 1648 pose fine all’europea «Guerra dei Trent’anni». Nei prossimi tre decenni, il Pianeta dovrà porre le basi per un nuovo ordine, determinato dalla gestione energetica. Non potremo così che imbarcarci in una nuova «Guerra dei Trent’anni», meno sanguinosa ma altrettanto decisiva per un semplice motivo: l’attuale sistema energetico non potrà soddisfare il fabbisogno mondiale, e dovrà essere sostituito o integrato da nuove energie utili a evitare un disastro ambientale di proporzioni inimmaginabili. Saranno i vincitori di questa guerra a decidere il modo in cui vivremo e lavoreremo, mentre i perdenti saranno per sempre esclusi. Durante questi anni a venire, mentre si arriverà a sfruttare su scala industriale alcune delle nuove energie oggi in via di sperimentazione, è probabile che l’uso di risorse fortemente inquinanti, quali il petrolio e il carbone, cali drasticamente.

Le conseguenze economiche saranno di notevoli proporzioni per i giganti del petrolio come BP (British Petroleum), Chevron, ExxonMobil e Royal Dutch Shell, che saranno costretti ad adottare nuovi modelli di mercato e ad affrontare la sfida dei gruppi emergenti nel campo delle rinnovabili. E al futuro di questi giganti è legato il destino delle nazioni, la cui sicurezza dipende dal controllo dell’energia.

Per comprendere la natura del conflitto, si consideri che, secondo la Bp, nel 2010 il nostro Pianeta ha consumato 13,2 miliardi di tonnellate di energia, di cui il 33,6% petrolifera, il 29,6% carbonifera, il 23,8% ricavata dal gas naturale, il 6,5% idroelettrica, il 5,2% nucleare e solo l’1,3% proveniente da fonti rinnovabili. Ogni tentativo di mantenere, di qui a 30 anni, queste proporzioni, aumentando per di più la produzione energetica del 40% per soddisfare il fabbisogno mondiale, è impossibile per due cause: la scarsità di petrolio e il cambiamento climatico. Per la maggior parte degli analisti, l’estrazione del petrolio convenzionale – ovvero quello più facile da ricavare – raggiungerà il picco nei prossimi pochi anni prima di iniziare un declino irreversibile, mentre l’utilizzo del cosiddetto petrolio «non convenzionale» avrà l’unico effetto di rimandare il problema. Ma ancora più grande sarà il danno provocato dall’accelerazione del cambiamento climatico – innalzamento dei livelli dei mari, siccità e caldo prolungati – che imporrà un freno ai consumi.

Ma se petrolio e carbone sono destinati a perdere posizioni, che cosa li sostituirà? Una soluzione di «transizione» potrebbe essere il gas naturale, meno inquinante e che, grazie alle moderne tecnologie di estrazione, si è rivelato più abbondante del previsto. Secondo le previsioni del Dipartimento dell’Energia americano, entro il 2035 il consumo di gas negli Usa sorpasserà quello di carbone, anche se sempre dietro al petrolio. Alcuni analisti hanno addirittura parlato di «rivoluzione del gas naturale», ma il rischio legato all’inquinamento delle acque per l’estrazione suggerisce cautela. Quanto al nucleare, il disastro giapponese della centrale di Fukushima ha spinto molti Paesi, quali l’Italia e la Svizzera, a fare marcia indietro. Nonostante altri, come la Cina, proseguano nel programma atomico civile, e gli entusiasti del nucleare (incluso il Presidente statunitense Barack Obama) promuovano lo sviluppo dei cosiddetti piccoli «impianti modulari» meno inquinanti e più sicuri, è improbabile che sia questo il futuro dell’energia.

Si può invece affermare che nei prossimi 30 anni il mondo ricorrerà al solare e all’eolico in misura significativamente maggiore. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, queste due fonti passeranno da una fetta di circa l’1% del consumo globale nel 2008 al 4% nel 2035. Per raggiungere tale obiettivo, però, sarà necessaria una «rivoluzione tecnologica» nella progettazione di turbine, pannelli solari e sistemi di stoccaggio. La Cina, la Germania e la Spagna hanno già fatto una serie di investimenti in questo senso, che le avvantaggeranno. Molti esperti vedono un futuro promettente anche nei biocarburanti, specialmente dopo che l’etanolo – basato sulla fermentazione dei cereali e della canna da zucchero – è stato sostituito dai carburanti di seconda e terza generazione derivati dalla cellulosa delle piante e dalle alghe. Anche se il processo di fermentazione richiede calore, ovvero energia, e l’impiego di tali materie prime si sposa male con l’aumento del prezzo degli alimentari, molte compagnie, come la ExxonMobil, stanno testando tecnologie promettenti. Lo stesso Dipartimento della Difesa americano sta investendo nei nuovi carburanti con l’obiettivo di trasformare l’esercito Usa divora-energia in una macchina più ecologica.

Dieci anni fa, molti esperti vedevano il futuro nell’idrogeno. Abbondante nell’acqua e nel gas naturale, oltre che non inquinante, l’idrogeno richiede però sofisticati – ed energeticamente dispendiosi – processi di estrazione, oltre che costose tecniche per il trasporto e lo stoccaggio. Esiste poi un’altra serie di nuove fonti, alcune tutte da esplorare, oggi allo studio dei migliori laboratori mondiali. Tra le più promettenti, l’energia geotermica, quella delle onde e delle maree, tutte scarsamente inquinanti ma con altri possibili rischi da valutare: l’energia geotermica, per esempio, comporta profonde trivellazioni che potrebbero innescare piccoli terremoti. L’efficienza energetica, infine, ovvero la capacità di ottenere il massimo risultato con il minimo consumo, farà sicuramente la differenza.

A vincere la nuova Guerra dei Trent’anni saranno cioè quei Paesi in grado di sviluppare innovazioni nei trasporti, nell’edilizia e nelle tecniche di produzione orientate al risparmio energetico. A me piace scommettere sui sistemi «decentralizzati», più facili da installare e da gestire, alla stregua dei computer portatili che usiamo oggi paragonati ai macchinoni degli anni 60 e 70. In questo senso le energie rinnovabili, più facilmente spendibili a livello urbano e di quartiere, fanno meglio sperare rispetto ai pesanti impianti nucleari e carboniferi. I Paesi che riusciranno ad abbracciare questa visione arriveranno vincenti nel 2041 e – visto lo stato in cui il nostro Pianeta verserà – appena in tempo.

La Stampa 04.07.11